Avevo detto al massimo due volte al mese, ma non avevo messo in conto di saltarne uno. Giugno è andato via un po’ per le sue, tra molte cose (altre cose) da scrivere e una vita fuori di cui riappropriarmi, senza fare granché di eccezionale, ma solo uscendo spesso, anche solo per passeggiare, e andando al cinema.
Benvenutə su Novelz, la newsletter che nel 2003 sarebbe stata un blog, dove troverai solo una iniezione di nostalgia tutta sportiva (d’altronde giugno è stato un mese di sport, per me) e cosa ho fatto ultimamente.
In erba
Quando sta per cominciare Wimbledon, arriva di conseguenza un certo friccico.
Non ha nome. Arriva ogni anno alla stessa ora, mentre la temperatura aumenta e la primavera tramonta, mentre sono impegnata a fare altro e la mente si accorge, a un tratto, che è quel tempo dell’anno.
Arriva giugno, finisce il Roland Garros, e comincio a guardare tutti i tornei sull’erba come un lento approdare ai Championships; la stagione sull’erba capita in mezzo a tutto il resto. Una settimana prima è primavera, c’è la terra, quella dopo si cambia scenario in modo repentino; si apre una parentesi peculiare, in cui c’è chi mugugna, chi non vede l’ora, chi ha paura, chi pensa alla pioggia, chi si stufa della tradizione, del bianco, della recitazione, chi non vuole pagare pegno e tantomeno tributi.
A Wimbledon ognuno ha il suo posto. Il pubblico non può mancare (l’anno scorso abbiamo passato), l’erba prende vita e muta: i primi giorni il manto è perfetto e poi man mano si indebolisce, si piega ai colpi sferrati daglə atletə, si fa tagliare dai solchi, se necessario, e porta in superficie la sua natura, fatta di terra, ma non rossa, piuttosto marrone chiarissimo, quasi beige. Una terra che lascia delle macchie, laddove passa la storia del torneo e dal fondo si espande verso il centro del campo, non si mischia al verde dell’erba, anzi: si allarga pian piano, dopo ogni partita, lascia un segno sempre più profondo che dalla linea di serve finisce allo spazio del volley, fino a quando si chiude il sipario.
Il dress code assume un ruolo rilevante. Quest’anno Ash Barty sta rendendo omaggio al titolo conquistato da Evonne Goolagong nel 1971, indossando un completo che richiama quello della prima australiana aborigena a vincere Wimbledon e Serena Williams ha fatto il suo ingresso sul campo per il primo turno superando ogni ragionevole aspettativa.
Wimbledon 2021 è appena iniziato e ho già pianto le lacrime più disparate: i ritorni — di Andy Murray e di Roger Federer — gli addii — di Carla Suarez Navarro — la bellezza — di certi gesti e certi colpi che solo Venus Williams sa portare — e soprattutto l’imponderabile cuore spezzato di Serena Williams, che si fa male in modo inaspettato e mi obbliga a fare i conti anche con lei, e non so come fare, perché i conti senza partite da guardare sono solo molto tristi, diventano aridi.
Deve esserci uno strano vento quest’anno a Wimbledon per quelli come me, proprio per noi che abbiamo quest’età in cui stiamo aspettando che ogni cosa finisca: ci togliamo le mascherine, torniamo al cinema, come aspettiamo di capire se questo sarà davvero, per la prima volta, l’ultimo Wimbledon.
Il mio giro, nello specifico, si chiude oggi.
2 luglio 2001
Le date servono a poco, mentre vivono: numeri che entreranno o meno in una storia precisa, ma solo dopo che questa si è conclusa.
Il 2 luglio 2001 ero in camera mia a rimuginare su un test a risposte multiple completato malamente, una delle pochissime volte in cui mi sono trovata a non sapere cosa fare davanti a un compito.
Il 20 e 21 giugno avevo fatto le prime due prove scritte della maturità e il 30 era stato il giorno della terza: Matematica, Fisica, Lingue straniere, forse Storia dell’Arte. Di sicuro Matematica e Fisica che da sole si presero metà dello spazio e i voti peggiori. La terza prova scritta tagliò le gambe a tutta la classe e il 2 luglio più o meno tuttə stavamo ripensando a quante volte avevamo dato per scontato le materie scientifiche in cui ci applicavamo meno. È stata una débacle collettiva, un momento di silenzio imbarazzante e di frustrazione.
Nell’angoscia di aver forse buttato alle ortiche l’esame di maturità e nella speranza di un orale che sarebbe dovuto essere perfetto davanti a una Commissione di sconosciuti, il 2 luglio 2001 è il primo giorno dopo mesi in cui non apro un libro, né per leggere né per studiare e, accendendo la TV, per fortuna c’è un ottavo di finale di Wimbledon, una partita come molte altre, che viene presentata come quasi finita ancora prima di cominciare.
Entrano insieme sul Campo Centrale.
Pete Sampras ha un’andatura sicura, ha il suo tic, affretta qualche passo prima di inchinarsi al royal box, mentre Roger Federer un po’ lo segue, un po’ fa finta di andare per conto suo.
Da una parte c’è Pete Sampras, vincitore di 7 degli ultimi 8 titoli, uno che, a torto, è stato definito spesso solo come un giocatore vincente, uno che non avrebbe fatto appassionare al tennis nemmeno la persona più volenterosa, perché giocava facile, senza arzigogoli, senza tumulti, quasi senza drammi. Colpi potenti, un servizio inimitabile, dritti e rovesci precisi e piatti, che nessuno sa replicare, e noiosi, che fanno sempre lo stesso rumore.
Di fronte al rivale Andre Agassi non è per nulla affascinante, non risulta eccitante, non ha quasi mai niente da ridire. Gioca e basta, Pete, e gioca il serve & volley, quello che era necessario per vincere a Wimbledon e inutile a Parigi — non ha mai vinto il Roland Garros, stiamo ancora in quel tennis dove la specializzazione delle superfici era tutto — e che fa il suo ingresso per l’ennesima volta davanti al pubblico più importante per lui.
Dall’altra parte c’è Roger Federer, 19 anni e tutto da dimostrare, un Wimbledon juniores vinto, un rovescio delizioso e tante belle speranze davanti. Lo svizzero, a guardarlo il 2 luglio 2001, in superficie non ha niente del campione che diventerà: spesso tra un punto e l’altro non stacca gli occhi dall’avversario, è incredulo rispetto ai suoi punti migliori, su ogni spazio liminare che colpisce, come se li tirasse fuori dal cappello magico senza sapere come, come se fosse lì per caso, come uno di quei tennisti a cui si riserva un quarto d’ora di celebrità.
Un po’ della partita
Nel primo set, Federer trova una continuità di risposta inattesa e la usa per arginare i servizi di Pete Sampras e per mettergli un po’ di pressione. Scende nel gioco, prova, impara, colpo dopo colpo, mentre calpesta sia l’erba più pregiata sia l’eredità del suo avversario.
Durante il tie break del primo set, sul 4 pari, Roger Federer si agita: manda la prima a rete, poi con la seconda cede le maniglie dello scambio a Sampras e alla fine il dritto incrociato è fuori. Si arrabbia con l’aria, la colpisce con un pugno, un gesto del giovane Federer, dell’impazienza da sfogare, come se ogni punto di un match al meglio dei 5 set abbia sempre la stessa importanza.
Il servizio successivo è di Sampras, che, in vantaggio 5 - 4, sbaglia: non solo nell’esecuzione della prima, ma in una seconda molle e nel portarsi a rete con troppa indecisione; finisce per essere infilato da un rovescio da fondo che lo supera veloce: Federer lo carica da fermo, il gesto è composto e completo e nessuno sa che sarebbe migliorato e sarebbe arrivato a un livello inimitabile.
Non appartiene ancora a quel campo, Federer, ma dentro il tempo è maturo, perché gioca meglio dell’avversario, lo imita nel servizio più incisivo del solito, nelle discese a rete più rischiose del solito, in un modo nuovo di interpretare la partita, che non si vede ma c’è e che lui stesso ha preparato, ma non è sicuro di poter eseguire, almeno fino all’inizio della partita.
Nel quarto set, sempre al tie-break Pete Sampras è avanti 5 - 1. Succede l’inevitabile: lo svizzero cede, si offusca, forse il peso dell’avversario si fa sentire e il commentantore inglese dice che Sampras sta giocando in modo monumentale. Non c’entrano i servizi o i passanti, c’entra la presenza sul campo. Su questo Federer non può agire, non ci può entrare; è una sensazione che può solo vivere sulla pelle e imparare a portarsela appresso. Combattere il controllo della storia del torneo che si fa colpi non si può evitare e non si può nemmeno bypassare.
Sampras è lì, senza troppi fronzoli, a ricordare a Federer che niente accade per caso: né la vittoria, né la sconfitta. E se si guarda quel punto della partita da questa prospettiva — entrambi i lati della storia hanno la stessa matrice — ogni situazione ha le medesime possibilità di diventare possibile.
Sul 5 - 1, Roger Federer sbaglia la prima e con la seconda più debole scende a rete, per una volée di rovescio vincente, ma non è soddisfatto e a nessuno importa: Pistol Pete non sbaglia il servizio successivo, il giovane Federer quasi si dispera per un lob troppo lungo, su cui aveva investito troppo (o troppo poco) e Pete Sampras è a un punto dal 2 set pari.
Forse proprio in quel momento, non so, ma di sicuro al quarto set, ricordo di aver pensato che lo capivo perfettamente, che in fondo avrei voluto la disfatta di Pistol Pete, perché avevo bisogno che Roger Federer vincesse. Non mi importava ancora molto il come, il risultato: contava solo il successo.
Pete Sampras mi è sempre piaciuto, come adoravo Andre Agassi, non ho mai vissuto quella rivalità come tantə altrə perché non mi apparteneva, non l’avevo iniziata io e quindi mi piaceva guardare un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, a seconda dei contesti.
Quel 2 luglio 2001, però, è finito il mio sodalizio con Pete Sampras, non avrei più difeso il suo gioco pulito e senza agitazioni, non avrei guardato più alla sua noia — se di noi si trattasse — come efficenza. Ho pensato che dovesse perdere, per darmi un po’ di allegria. Pistol Pete non sbaglia, è lì per un motivo d’altronde, e anzi il giovane Federer è ancora più nervoso.
Durante la partita succede spesso che Roger Federer si picchi a ogni errore, per poi conquistare un punto, magari con servizio potente e colpo a rete, esattamente come avrebbe fatto l’avversario, e dopo ogni riuscita gridare un «Come on» a occhi strizzati dentro il pugno. Quando si riprende un punto, il ragazzino ne gode. Un punto vuol dire solo un momento, un pezzo di sogno e ogni volta in cui Federer cade pensa che sia tutto irrimediabilmente compromesso per poi dimenticarsene, d’incanto, al turno di servizio successivo.
Sul 4 pari del quinto set, Roger Federer stringe i denti e tiene il servizio del nono gioco, poi, sul 6 - 5, a Pete Sampras tocca il giro dei meno gloriosi: servire per rimanere nel match.Controlla le palline, guarda il piatto della racchetta, il pubblico incita, parlotta, ma non importa. Non guarda Federer, ha paura di un sortilegio, di trovarlo sicuro, di alzare lo sguardo e ritrovarsi di fronte un nuovo campione e saprebbe che non avrebbe più brillato come prima.
Ci sono punti più importanti di altri, match più significativi di altri. Pete lo sa e lo pensa per entrambi.
I expected to win, but very early in the match I realized that I was up against a kid with a complete game and talent to burn.
(Pete Sampras in Pete Sampras: A Champion's Mind, Aurum Press, 2010)
In quella partita, Roger Federer è tutto e il suo contrario, brucia il suo talento e la fiamma non si è più spenta.
Averci ripensato mi ha fatto venire un piccolo vuoto in gola, che si è riempito di commozione, a ricordare quanto i pensieri senza sfumature ci appartenessero allora e quanto adesso apprezziamo l’incedere cauto, la vittoria di due punti, senza scossoni, senza drammi, solo con una giusta porzione di divertimento, che non alzi il livello di zucchero nel sangue.
Il campione che diventerà non si farà solo in quell’incontro, ma in quel 2 luglio 2001 Roger Federer non sa ancora che vincerà, non ci scommetterebbe nemmeno lui sul suo successo e il quinto set ne è una prova. Esce il gioco, prima del campione, esce la solidità sul campo prima dell’emozione della vittoria, dopo la quale si ripara la bocca con la mano, accenna a un pianto, non ci crede, non può essere.
È lui, siamo noi, ma non lo sappiamo ancora.
Scrivo cose
Per L’Ultimo Uomo ho intervistato due calciatrici di serie A: Elena Linari e Sofia Cantore.
Per Zarina di giugno, invece, ho riflettuto sulla legacy: sulla parola, sulle costrizioni e sul nostro ruolo come spettatori.
Vedo gente (online)
Con Tiziana Scalabrin e Giorgia Bernardini abbiamo parlato della questione di Naomi Osaka e del Roland Garros (e poi ne ho parlato anche a Radio Spop); qui sotto ci sono i link a entrambe le cose.
Vedo gente (dal vivo)
Durante l’Europeo di calcio maschile, a Scalo Lambrate sto vedendo le partite dell’Italia insieme a Calcetto Eleganza.
C’è un maxi schermo, il prato, le zanzare e un cuore tricolore fatto a uncinetto.
Prima di ogni partita facciamo le chiacchiere: è davvero l’Europeo più spettacolare in assoluto?
Per questo numero è tutto.
A presto!
Hai una domanda o un commento?
Puoi scrivermi rispondendo a questa mail.