Il 4 ottobre di venti anni fa iniziava il rapporto più proficuo della mia vita: quello con l’Università di Bologna. La cosa buffa è che oggi a Bologna è tutto chiuso, è San Petronio, quindi l’iscrizione era solita partire oggi, carte alla mano, ma poi avremmo iniziato l’indomani.
È un periodo di cifre tonde: Nevermind dei Nirvana, per esempio, ha compiuto 30 anni e la BBC ha fatto un nuovo docu-film sul gruppo più importante degli ultimi, appunto, trent’anni: si intitola When Nirvana come to Britain, è uscito su BBC Two lo scorso 18 settembre (nota: il player al link in Italia non funziona, ha delle restrizioni geografiche).
Mentre non ci siamo letti è nato Goleadora, con Giorgia Bernardini. È un podcast sul calcio femminile, anche se bisognerebbe essere più puntuali e dire un talk sul calcio femminile, perché ci siamo io e lei che chiacchieriamo di alcuni argomenti che ci interessano riguardo al calcio femminile.
Goleadora lo ascolti soprattutto su Spotify e Spreaker, e poi quasi dove vuoi (manca Apple Podcast). È gratuito, la casa è sempre quella di Zarina.
Benvenutə su Novelz, la newsletter che nel 2003 sarebbe stata un blog, dove ti racconto la finale dello US Open 1999, l’ultima finale giocata tra teenager prima di quella del 2021, di una nuova (per me) serie TV, di un libro, due pezzi scritti da altrə, cosa ho fatto ultimamente e qualche informazione su Novelz, se è la prima volta che sei qui.
Gioventù
Nel 1999 la finale del singolare femminile dello US Open si è giocata tra Martina Hingis e Serena Williams.
Steffi Graf si era ritirata ad agosto e quello è stato il primo Slam senza di lei. O meglio: era presente tra gli spalti, ma a vedere la finale di Andre Agassi, che vinceva il suo secondo e ultimo Slam a New York. Nessunə sapeva ancora esattamente il motivo della sua presenza lì.
Martina
Nel 1999 in primavera Martina Hingis aveva perso il Roland Garros contro Steffi Graf, una delle sue partite peggiori, una delle migliori della mia tennista tedesca preferita. L’ultimo Slam di Graf, quello della liberazione − non era ancora chiaro quanto fosse invece libertà − e dall’altra parte una delle promesse del tennis femminile.
A 18 anni, la svizzera si presenta a New York con 5 Slam all’attivo (due Australian Open, un Wimbledon e uno Us Open) e una discesa davanti: per moltissimə sarebbe diventata la nuova Steffi Graf. Non tanto perché le due giocassero in modo simile, ma perché il destino di Martina Hingis era ovviamente rimanere ai vertici della classifica mondiale per anni. Per come giocava, certo, ma anche per il carattere, ai tempi mal definito spesso come caratterino, e soprattutto per il fatto che in pochi anni e con tanti margini di miglioramento possibili aveva già vinto molto.
Lo stile di gioco di Martina Hingis era quello di una ragazzina dotata fin da tenera età; a 12 anni, quando chiunque vedeva in lei una campionessa, era bassa e ancora minuta, poco esplosiva nei colpi. Non aveva doti naturali di atletismo, anzi, ma possedeva una mentalità votata alla tattica: aveva studiato il campo, lo conosceva talmente bene che riusciva a essere nel posto giusto al momento giusto in ogni occasione. Era agile, non potente, versatile, non fissa su se stessa, opportunista, sempre attenta a come mettere in difficoltà chi aveva di fronte.
Martina Hingis aveva un talento fine e elegante e si era convinta da subito di essere la migliore di tutte: lo diceva apertamente, ingaggiava mini battaglie dialettiche prima delle gare con le sue avversarie, non si nascondeva dietro una finta umiltà, tipica di certi momenti della carriera sportiva, anzi se ne discostava: da giovani, per definizione, si ha sempre tutto da imparare, un tutto di circostanza senza confini precisi.
Serena
Nel 1999 Serena Williams aveva vinto il torneo di Indian Wells contro Steffi Graf, una delle sue partite dell’anno migliori, una delle più tristi della mia tennista tedesca preferita.
A 17 anni, Serena atterra allo Slam di casa con nessun Major all’attivo e un gioco solido e già maturo solo sul cemento: sulla terra non brilla e sull’erba non sa ancora cosa fare. Contro Steffi Graf approfitta di ogni errore possibile dell’avversaria, corre di più, la affatica, e si sente talmente in forma da non avere nemmeno un po’ di soggezione per la «signora Graf» come la chiamerà a fine gara. Durante il torneo, oltre a Steffi Graf, in quel momento numero 7 del mondo, Serena batte anche Lindsay Davenport, numero 2, e Mary Pierce, numero 8 (allo Us Open qualche settimana dopo toccherà a Monica Seles).
A parte Indian Wells, e per tutta l’estate, Serena non è esistita in alcun torneo importante, nonostante le intenzioni: ancora sul campo dirà: «Steffi è una grande campionessa e ha vinto più titoli di tutti, uomini compresi. È il torneo più importante portato a casa finora. Non so quante partite consecutive mi sono aggiudicata ma è quanto basta per un titolo Slam e mi sento pronta per questo salto di qualità.»
Il cemento è casa sua, si sente a suo agio, riesce a esprimersi al meglio e quando arriva lo US Open ha un desiderio in mente, solo uno e qualcuno ha creduto che fosse solo superare i primi turni.
La partita
In quel momento storico del tennis avere due adolescenti in una finale Slam era molto più comune: al torneo importante si arrivava prima, senza il pensiero di una carriera lunga o, fatte le dovute eccezioni, a una cauta preservazione del corpo. Le tenniste più mature avevano notevoli problemi di atletismo, di fragilità fisica e la grande eccezione è sempre stata solo Martina Navratilova.
Dati i suoi successi, Martina Hingis in questa finale è la giocatrice da battere, ma succedono tre cose che non lo permettono.
Alla tattica si risponde con la tattica
La prima cosa che Serena trova durante quelle settimane di Us Open è la possibilità di ragionare, di avere un piano gara, metterlo in pratica e anche aggiustarlo un poco, in corso d’opera. Non c’è niente di male a cambiare parzialmente idea e soprattutto: si possono correre rischi calcolati, cercare di modulare gli scambi, addirittura correre a rete, se necessario.
Un’arma fine di mondo
La seconda è ovviamente il servizio: non l’abbandona mai. In due lunghe settimane di torneo il servizio diventa l’ombra più fidata e la gioia di Serena. È la sua arma più potente, più efficace, più risolutiva. E non importa se è poco elegante: la potenza pura, nel 1999, era ancora un fatto disdicevole, ma ciò sarebbe cambiato in fretta.
Puoi arrivare dove vuoi
Non ci si può nascondere su un campo da tennis: da soli, ciò che si è, come si interpreta il gioco, quanto si investe su di esso e soprattutto il potere emotivo dell’avversaria non si possono nascondere. Si può imparare a celare i pensieri, mettere un velo, ma quando la partita è tesa, chiudere la persona che si è nell’armadio è un dispendio di energie troppo alto, quasi controproducente.
La terza è questa: Serena Williams ammette a se stessa di non avere riguardo per nessuno. Essersi allenata contro una parte di sé per anni le aveva permesso di sviluppare un cinismo peculiare (nessun altra sarebbe stata al livello di Venus o le avrebbe procurato le stesse tensioni o ancora le stesse reazioni in carriera) e una quota a parte di competitività controllata: Serena riesce a focalizzarsi, a giocare contro un ruolo – quello dell’avversaria – senza nome né storia, in un dato momento per un dato incontro.
Poi, semplicemente, passa oltre.
Martina e Serena
Prima della semifinale dello US Open 1999 contro Venus Williams, Martina Hingis dice che la battaglia non è affatto decisa e anzi: che non ci sarà una finale tra le sorelle più in voga del tennis, perché si metterà in mezzo.
Detto fatto, batte la maggiore e va a vedersela con la minore: la meno organizzata, meno adatta alle telecamere e ai microfoni, la sorella che perdeva ai primi turni in ogni Slam, mai pronta allo sfavillìo architettato da suo padre per loro. Quella che viene liquidata con:
«Parlano troppo, è già successo, succederà ancora. Non me ne preoccupo.»
Durante la premiazione, Serena risponderà a tuttə: al padre, a Venus, a Martina, anche se ringrazierà ciascunə con educazione formale. Non conta ciò che dirà, ma come accompagnerà il suo trofeo: con un sorriso grande come lo stadio, con l’ingenuità della prima volta negli occhi, con il completo Nike più anonimo della sua carriera, con le perline ai capelli e infine con la testa alta, altissima, tanto quanto il suo orgoglio e la sua ambizione. Non ci sono lacrime, non ci sono emozioni debordanti, non ci sono pensieri contrastanti rivolti agli spalti, che è il posto di Venus, cappuccio sulla testa e sulle labbra felicità rubata.
A Serena per la prima volta non importa di Venus, di Richard, dell’avversaria di turno, a un certo punto lo capirà definitivamente: non c’è mai niente di più importante di vincere. Scivoleranno le parole, dette prima e dopo, i sacrifici, i pianti e la dedizione. Rimarrà sempre e soltanto lui: un trofeo. La fine plastica che la riporterà ogni volta al punto di partenza.
Ted Lasso
Senza spoiler
Premiata agli ultimi Emmy Award come miglior serie TV commedia, Ted Lasso è Jason Sudeikis, un allenatore di football americano sbarcato in Gran Bretagna per gestire una squadra di calcio londinese in difficoltà in Premier League. La serie consta al momento di 2 stagioni (il finale di stagione della seconda arriverà l’8 ottobre) e si può vedere su Apple TV+.
Ammettendo un certo pregiudizio per il fatto che c’è stato un momento, qualche mese fa, in cui non facevo altro che sentir parlare di Ted Lasso e del fatto che lo sport in questa serie fosse trattato «non solo come se fosse sport» (leggi: senza riferimenti a battaglie, combattimenti, vittorie, soprattutto senza valorizzare il calcio contemporaneo e tutto quello che ti viene in mente a corollario), ho iniziato a vederla di ritorno dalle ferie, in ritardo.
L’errore è stato leggerne troppo prima di guardarla: Ted Lasso è la miglior serie TV di sport che ti possa capitare di guardare. Non una serie TV che «usa il calcio per raccontare altro» come se fosse una giustificazione, no: proprio una serie di sport, una serie sul calcio, e non quello romantico di cinquanta anni fa, no.
Il perché Ted Lasso vada ad allenare una squadra di calcio e non di pallavolo in Inghilterra è evidente: se ogni quartiere (o quasi) di Londra può permettersi una squadra di calcio – permettersi nel senso di volume di tifo che può concentrare e la tifoseria in questa serie gioca un ruolo di contrappunto essenziale – quello è uno dei modi per raccontare una porzione di società, di sistema attorno cui si scrive la frase più abusata: non esiste più il calcio di una volta.
Quello con cui ci confrontiamo continuamente guardando Ted Lasso, però, è l’idea platonica della squadra di calcio, dove ogni individuo è accettato per quello che è, umanamente e atleticamente, dove esiste un capitano perché esiste un punto di coesione condiviso, dove viene deprecato il sessismo, il maschilismo, il razzismo, e se c’è si combatte senza mezzi termini; dove un calciatore ha delle opinioni politiche e le esprime senza porsi nemmeno la domanda se sia giusto o meno farlo; dove, infine, i tifosi non rompono nemmeno una sedia di un pub, se sono arrabbiati. La serie mette al centro il fatto che vincere è diretta conseguenza del funzionamento ottimale della squadra (e dunque della comunità) e in questa cornice il tifo è supporto, sostegno, un valore imprescindibile: in entrambe le stagione questo verrà messo in discussione in due forme: quella più “facile” del tifoso allo stadio e davanti alla TV e quello più fine delle dinamiche all’interno dei vari componenti della squadra e dello staff.
L’AFC Richmond non ci dice che il calcio è lo sport più bello del mondo, ci dice che lo sport di squadra è lo sport più bello del mondo e che questa è la forma più prossima a una comunità socio-culturale in cui possiamo immergerci e allora, forse, dovremmo averne cura.
Per questa ragione, guardando Ted Lasso, viene da guardarsi attorno: qual è la mia comunità? Come è fatta? Di cosa parla? Come vince, se vince? Che partite gioca ogni settimana?
Ted non sa niente di calcio, ma sa molto di come funziona un essere umano, di come si costruisce uno spogliatoio, scopre se stesso mentre impara il calcio. Sembra quasi un dono naturale, e io mi sono molto identificata con la Doc Sharon (la Psicologa della squadra) perché sono quella spettatrice diffidente verso un personaggio che mette in scena un sistema di valori che non esiste pienamente nella realtà: è continua la tensione fra ciò che vedo sullo schermo, ideale, e ciò che so della realtà.
Man mano che si guardano le puntate, però, presi dall’ironia che subisce ogni personaggio di questa comunità (dai tifosi alla Presidente, passando per i giocatori) e colte le sfumature umane di ciascuno, si cambia prospettiva.Ted Lasso fa scivolare un pezzo di cinismo – è il miracolo della comedy – via da tuttə, da quellə come Doc, che ci mette un po’ per farselo piacere, prende appunti, cerca di capire, analizza e riesce a trovare il difetto e quindi la vera umanità di Ted, un lato fallibile e intimo.
Vittorie e sconfitte sono tappe ambivalenti ed entrambe necessarie, e in questi tempi di grandissimi problemi mondiali ma anche di esaltazione olimpica (e clamorosi ritiri), che sia una serie comedy a ricordarci che siamo fatti anche dei nostri passi falsi è un traguardo comunque notevole.
Dentro questa serie TV lo sport non è una scusa, perché il centro sono la vittoria e la sconfitta, i due paletti entro cui lo sport si muove.
Potrebbe sembrare vera la seguente affermazione: sostituendo l’obiettivo salvezza con uno politico, ad esempio, il risultato non cambia, il senso profondo della serie rimane identico. Invece, il fatto che sia il calcio, su tutti, a rappresentare il massimo sistema di valori discutibile tra gli sport moderni, il fatto che sia uno sport di squadra, il fatto infine che sia una squadra di underdog a essere lente della storia (quando incontriamo il Richmond deve evitare la retrocessione) la vittoria e la sconfitta hanno un peso rilevante: sappiamo che la squadra probabilmente vincerà poco e questo ci toglie dall’imbarazzo dell’epica. Non guardiamo, quindi, dello sport che diventa monumento o memorabile; parliamo di quello che si fa vita quotidiana di un gruppo di persone e può rappresentare, dato questo limite spazio-temporale, il nostro, dove nemmeno l’impegno e la convinzione bastano per vincere tutte le partite.
Un presunto unicorno, per esempio
Inventario di alcune cose perdute, di Judith Schalansky, pubblicato da nottetempo con la traduzione italiana di Flavia Pantanella è una raccolta di dodici racconti, corredata da altrettante illustrazioni, ciascuna dedicata a una cosa che non c’è più o che non è più visibile. Tra storia e immaginazione, dettagli realmente esistiti e altri visionari, l’autrice ricostruisce piccoli mondi, i loro linguaggi e ciò che sta attorno a ciò che è andato deteriorandosi, non c’è più o meglio: non possiamo più vedere.
La raccolta forse va letta centellinandola, riservandosi un tempo finito in cui quasi possa non esistere la fisicità di una stanza o di un luogo attorno; questi racconti sono ciò che possiamo intendere letteralmente come «evasione» perché riescono a lasciare gli elementi di realtà fuori dalla porta, anche quando i racconti narrano la realtà.
Mi è venuta voglia di affidarmi all’autrice senza remore. Non importa se è tutto vero. Non importa che c’è una data storica di riferimento. In un certo senso, ci si libera della domanda su quanto sia importante che un racconto ci dica la verità ed è stata per me una sorta di liberazione.
Il processo che si innesca alla prima parola e termina con l’ultima è simile a un labirinto del parco giochi: si entra in un mondo circoscritto in cui non si ha troppa paura di infilarsi, perché si sa realisticamente che a un certo punto si potrà uscire, ma nel mentre ci si ricorda di quella volta, in quel racconto o di quella volta in quel sogno in cui non è andata esattamente così. E un senso di possibilità dell’altrove, dell’alternativa si fa sentire.
E poiché il presente, come fanno i coralli, si insedia sempre su qualcosa che sta affondando, il suo corpo, non vecchio ma già grave, è attratto da una forza magnetica negli abissi, nelle viscere della terra, nelle cantine dai soffitti a volte e nelle catacombe, nei complessi tombali sepolti lungo le strade consolari al di là delle mura cittadine […]
(Da Villa Sacchetti anche detta Villa al Pigneto del marchese Sacchetti, pag. 87.)
Scritto da altrə
Il derby del popolo (…)
Su l’Ultimo Uomo, Antonio Cunazza scrive il pezzo più bello della settimana. Parla dello stadio del PSG, parla di calcio certo, racconta anche del senso di una scritta enorme nel calcio di oggi.
“Ici c’est Paris”, questa è Parigi. È uno degli slogan che campeggiano sul profilo interno della copertura del Parco dei Principi, lo stadio del Paris Saint-Germain, che negli ultimi tempi pare si debba chiamare soltanto “Paris”, con l’idea di marketing di far scomparire sempre di più l’identità del club in quella della città.
David, ancora tu
La cosa più bella di letteratura, invece, ultimamente l’ho letta su L’Indiependente: A casa della Sig.ra Thompson con David Foster Wallace, di Giovanna Taverni.
Anche in questo scorcio di realtà e tragedia Wallace resta illuminante nell’affondare nei cuori umani dei suoi contemporanei, nell’afferrare la realtà per piegarla alle parole, nel descrivere quel misto di ossessione catodica e innocenza emotiva, di dipendenza televisiva (ne soffriva pure lui) e sconvolgimento, di straniamento e rigurgiti di fede – patriottica, divina – di come lui stesso si lasci coinvolgere dall’emotività, dal momento, tanto da riuscire per un attimo a intravedere persino nella figura del presidente qualcosa di più di un “golem senz’anima” […]
È il racconto di David Foster Wallace da casa Thompson, ambientato tra l’11 e il 13 di Settembre 2001, un reportage intimo da una qualsiasi cittadina degli Stati Uniti.
Vedo gente
E succede che vinco un premio
Steffi Graf ha vinto il Premio Tuttosport all’interno del Premio letterario sportivo Invictus. Lo scorso 9 settembre c’è stata la premiazione a Cisterna di Latina. È stato molto divertente.
Per questo numero è tutto.
A presto!
Hai una domanda o un commento?
Puoi scrivermi rispondendo a questa mail.
Se sei qui per la prima volta
Novelz sta per «Novel» più una «z» difettosa: è come dire romanzo, storie, ma con un errore alla fine e quindi darsi delle arie, ma sul più bello pentirsene.
La newsletter
Novelz è iniziata a gennaio 2021. Ci troverai sempre delle storie: le mie, quelle che leggo, quelle che guardo, quelle di sport e quelle deglə altrə che mi piacciono molto, in quest’ordine oppure anche solo a pezzi. Arriva al massimo due volte al mese ed è gratuita.
La (breve) bio della titolare
Vivo a Milano dal 2007, con Simone dal 2012, con Paolo dal 2016 e vicino alla Martesana con molte piante dal 2020. Collaboro con L’Ultimo Uomo e ilLibraio.it e mi trovi qui, su Instagram e (poco) su Twitter.
Ho scritto due libri: l’ultimo si intitola Steffi Graf, lo ha pubblicato 66thand2nd e racconta la carriera in singolare della prima grande tennista a cui mi sono appassionata. È arrivato in finale al Premio Invictus, vincendo il Premio Tuttosport & Top Volley.