Questa dovrebbe essere l’ultima newsletter del 2021: diciamo che ci salutiamo qua e per questa volta scrivo un numero un po’ diverso.
Prima, però un piccolo preambolo.
A gennaio di quest’anno mettermi al computer e compilare la newsletter sembrava una cosa semplice, perché fluida, ma poi si è andata complicando. A me piacciono le complicazioni, quando hanno senso e questa ce l’ha, ma un pezzettino alla volta la situazione è cambiata.
Soffro di una sorta di responsabilità, man mano più alta, iscrizione dopo iscrizione, verso chi apre questo pezzo di html: mi stai regalando il tuo tempo, nella maggior parte dei casi non ci siamo mai visti e mi sembra una fiducia molto grande. Se non ho niente di importante da condividere, mi sono detta, è meglio aspettare un po’, stare in silenzio: ecco perché non ci sentiamo da qualche settimana e ci sono quattro bozze che non invierò mai.
Un conto secco, quindi, che ha valore più per me che per te, ma una volta all’anno posso imbrodarmi (credo): dopo 12 numeri di Novelz, sei insieme ad altre 253 persone ad oggi, 30 novembre 2021. Eri partitə insieme ad altre 44.
Grazie.
Benvenutə su Novelz, la newsletter che nel 2003 sarebbe stata un blog, dove leggerai un solo pezzo lungo, diviso in due sezioni, cosa ho scritto ultimamente e in fondo qualche informazione su Novelz, se è la prima volta che sei qui.
Tennis a parole
Leylah Fernandez e Emma Raducanu
Puoi immaginare discorsi zoppicanti, costruzioni esitanti, pause e risatine simili a gorgoglii di un rubinetto mal funzionante: sono giovani, è la prima volta per entrambe, quindi devono imparare. Niente di tutto ciò.
Emma e Leylah arrivano all’appuntamento più importante della loro carriera preparate, puntuali. Non c’è nulla fuori posto, nessuna lacrima di troppo, nessun moccolo dal naso mal celato, solo reazioni misurate.
Leylah conosce la prassi: l’avversaria gioca meglio, il pubblico è speciale, il tifo è una benzina eccezionale. Sorride, è emozionata e si porta regalmente la mano sulla bocca. Le lacrime sono ferme ai lati degli occhi, è acqua iridescente, e lei lascia che il pubblico la applauda, la acclami, le renda gli onori del caso.
Gioca un torneo fenomenale, lo Us Open, batte le migliori, mette in campo talento, determinazione e una dose di divertimento assoluto per lo stare in campo e colpire quella benedetta pallina con il giusto mix di ingegno e naturalezza che non si vedeva dal Roland Garros di un’altra teenager, Iga Swiatek, nel 2020 (un altro mondo, quello del silenzio negli stadi e un altro Slam, quello di terra rossa).
Leylah non vince e non si ritrae. È delusa, ha perso, ma non c’è tempo e in quel contegno esposto accompagnato da una mano in petto c’è già un’aspettativa realizzata: darsi completamente.
Lo vedi soprattutto dal minuto 1:42 in avanti.
Con una wild card per Wimbledon, Emma Raducanu si ritira durante la partita contro Ajla Tomljanović perché non riesce a respirare e poi commenta a riguardo: «Sono andata via per una questione fisica. […] Avevo bisogno di attraversare tutto per vincere uno Slam. Fisicamente devo fare ancora molto lavoro perché sono ancora nuova nel circuito e non ho avuto tempo di svilupparlo».
La situazione è intensa: Wimbledon fa il tifo per lei, perché è la ragazza di casa, è la figlia dell’erba che in Gran Bretagna conoscono da anni eppure rinuncia già agli ottavi di finale perché non vuole esagerare, non si conosce abbastanza, come un’adolescente qualsiasi. Due mesi dopo, da qualificata, alza il trofeo dello US Open e ride composta, come fosse lei stessa in una teca di vetro lucidata perfettamente, esplicitando il fatto che sapeva che sarebbe finita in quel modo. O meglio: il sogno è stato chiaro già da due notti prima, sarebbe bastato mettere in pratica il suo gioco. Semplice, no?
Con il primo Slam in mano a New York, invece, Emma Raducanu sorride smagliante, assolve all’obbligazione con leggerezza e compimento. Porta un senso di definizione e completezza nelle sue parole da far invidia a chiunque, a quel punto.
Queste due donne si sono presentate al pubblico del tennis maggiore nell’anno in cui nello stesso circuito si è discusso di un’altra atleta che nel 2018 sul medesimo palco ha avuto un compimento opposto, quasi violento.
Nel 2021 si è raccontato di come Naomi Ōsaka avrebbe dovuto o meno adempiere a un contratto e (riassumendo) solo perché pagatissima di come assecondare ogni richiesta, di come avrebbe dovuto o meno parlare di sé: è condizione necessaria per parlare di tennis? Avrebbe dovuto usare le sue opinioni e un problema intimo e individuale come leva per il cambiamento di tuttə oppure tenere tutto per sé?
Sul palco dello US Open nel 2021, che è stato di Naomi un anno prima e sempre suo per la prima volta appunto nel 2018, le stelle filanti rosse e blu accolgono chi fa un inchino senza patemi: Leylah e Emma onorano tutte le obbligazioni e i favori della telecamera che sembrano di nuovo solo una prassi dovuta.
Hanno tuttə ragione? Ha ragione chi guarda o chi gioca? Chi chiede conto delle emozioni, sperando in una sola risposta possibile o al massimo in un pianto liberatorio, da stare a guardare voracemente o di cui chiedere conto?
Dalla Russia per l’amore
A settembre, il compito ingrato di Daniil Medvedev non è stato quello di vincere una finale Slam al meglio dei 5 set contro il numero 1 del mondo che stava per completare il Grande Slam: questa è stata la parte meno complicata. È bastato giocare una grande partita, fare alcune delle sue cose pazze, disinteressarsi del tifo contro; è bastato che Novak Djokovic si spegnesse.
Medvedev ha vinto il suo primo Slam contro il migliore di tutti, a detta sua. Ha vinto e non ha potuto godersi l’ovazione, la commozione dei tifosi che lo hanno abbracciato in un unico gigante segno di condivisione, perché erano tutti lì per Nole, per l’impresa, per la Storia e hanno sofferto con lui, quando hanno capito che non ci sarebbero riusciti. Sulla panchina il re non è solo, anzi: ciascuno si rende conto in quel preciso istante che il destino non si compirà.
Medvedev ha vinto la partita più complicata della sua carriera riuscendo ad arrivare secondo. Mentre alzava il trofeo le stelle filanti non erano lì per lui, Rod Laver si era scomodato per fare l’applauso al serbo, persino la coppa, se avesse potuto, si sarebbe sfilata dalle sue dita e sarebbe finita in quelle del numero 1.
Djokovic, il cattivo delle favole, in questa fiaba è stato l’unico eroe possibile e pensava di essere lì per la Storia, invece a metà del secondo set si è accorto di essere lì per la sua storia, per la prima volta in cui ha desiderato comprensione, per ogni volta in cui ha mandato un saluto dal suo cuore verso gli spalti, lungo una curva disegnata dalle sue mani sempre in salita, per ogni circostanza in cui ci è sembrato borioso, troppo attaccato alla sua esibizione (quello delle mani è il suo gesto di gratitudine: le porta entrambe al petto, a un po’ di distanza l’una dall’altra, e spinge un qualcosa che somiglia alla gratitudine da sé verso il pubblico).
Se ne è andato dallo stadio con il cuore gonfio e le mani vuote e lo sterno che non ha trattenuto il sentimento.
Medvedev a quel punto ha accettato il destino della favola e il cattivo è diventato lui. Si è caricato il fardello addosso, lo ha fatto per il più grande, per il migliore, ma gli è toccato vincere da secondo; Novak è stato il protagonista e Daniil è servito per farcelo capire.
Libri in contesto
Io e Toph siamo il futuro
Nel 2019 al Festivaletteratura di Mantova mi sono messa in fila con la mia copia del 2001 de L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers, per poter avere un suo autografo che è una cosa che ho fatto solo quattro volte fino ad ora e potrebbe non succedere mai più.
L’ho letto nell’autunno del 2001.
Nell’estate di quell’anno il mondo fuori e il mio piccolissimo dentro sono entrati in collisione e, ho scoperto, per molti della mia (più o meno) età è stato lo stesso: chi per questioni politiche, chi per quelle anagrafiche, chi per entrambe.
Nel mio angolo ci sono state tre settimane cruciali a ottobre in cui ovunque andassi portavo con me quel libro. Ero appena arrivata all’Università, avevo sostenuto un esame di ammissione per entrarci e avevo deciso che fosse il mio obiettivo più importante nel giro di una notte. In fondo, però, non ne ero sicura: andavo dal pensiero di aver fatto la cosa più corretta della mia vita a quello molto più pratico che riassumeva l’insicurezza con un «Ma sei seria?», ripetuto a scatti, quasi con un sottofondo di derisione.
Riuscivo a leggerne due righe, un pagina, a volte dieci o venti al massimo, un pezzo alla volta, segnando non solo i primi percorsi a piedi nella nuova città, ma anche offrendomi il sostegno giusto quando mi trovavo da sola in un’aula universitaria tra una lezione e l’altra o poco prima di una o l’altra, senza punti di riferimento.
Mi guardavo intorno spesso, attonita, a tratti esaltata, in un miscuglio di percezioni che facevo fatica a separare: mi attaccavano a fuoco incrociato senza protezione e potevo sembrare completamente affranta e fuori da ogni possibile cerchio sociale, seduta lungo un margine immaginario stretto tra banchi.
In quei momenti, quando attorno il vuoto era piombo e gli sguardi degli altri fuggivano in angoli opposti ai miei tiravo fuori quelle pagine che erano la giustificazione appropriata per il fatto che stessi costantemente con la testa bassa. L’alternativa che Dave, il fratello maggiore di Toph, costruisce nel romanzo/memoir era la migliore possibile anche per me. Mi lasciava il tempo di preoccuparmi di ciò che accadeva a loro due, che non mi riguardava direttamente e che non avevo mai sperimentato in prima persona (non vivrò mai negli Stati Uniti, non ho perso i genitori, non ho mai avuto la responsabilità di un fratello), ma che mi spinge costantemente agli angoli lo stesso.
L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers è quel genere di libro che non si può lasciare fuori dalla porta. Se lo si legge, pagina dopo pagina, si è costrettə a farci i conti e per farlo ci si relaziona con una storia che parla per vie traverse, quindi arriva a colpire al fianco, a volte facendo solo il solletico, altre puntando la lama tra le costole.
L’ho riletto la scorsa primavera, durante quel lockdown che ci è toccato tra marzo e aprile e non l’avevo mai ripreso tutto di seguito, dall’inizio alla fine, dal 2001.
Lo straniamento è stato forte. È come se avessi lasciato dentro quel libro una porzione di vita - un insieme preciso di fatti, eventi, persone - e li abbia ritrovati cristallizzati. Per esempio, ho iniziato a chiedermi cosa fa quella ragazza che prendeva sempre lo stesso posto in prima fila, tutta a sinistra, o quell’altra che portava sempre delle fasce di lana sulla testa, che si intrecciavano in capo. La sua forma del viso, che ricordo tanto bene da poterla disegnare, è una cornice vuota. Non ricordo i suoi occhi, la forma della bocca. Ma potrei chiudere gli occhi e sentire l’odore delle goccioline di freddo sulla lana di quelle fasce per capelli, quando entrava in aula per sedersi dietro di me.
Ho realizzato che non esiste un libro che possa prendere questo posto. E non riuscirò più a tirarlo via da tutte le liste di libri speciali. Ho fatto bene a chiedergli quell’autografo e lui a fare finta di essere interessato a ciò che avevo da raccontargli (fare finta nel senso che eravamo tantə e ciascunə aveva un bottone da attaccargli).
La piramide rovesciata e altre storie
La mia serie dell’anno è stata Ted Lasso, te l’ho raccontata lo scorso numero. Potrei dire quella di Zerocalcare, Strappare lungo i bordi, e forse dovrei per essere proprio aderente alla verità più puntuale, ma Ted Lasso mi ha sorpreso e mi ha attivato una serie di considerazioni anche a distanza di settimane, click nel cervello che si illuminano ogni tanto da quando l’ho terminata.
Essendo un mondo aperto, contaminato da molte ingerenze esterne, ritorni, rimandi, riferimenti culturali, questa serie apre la narrazione oltre l’universo della serie stessa e lo fa esplicitamente. Tanto per l’ambientazione e il contesto, quanto per i personaggi realistici, Ted Lasso è capace di uscire dai confini audiovisivi e portare in diversi posti. Uno di questi è quello dei libri.
In particolare, al personaggio di Coach Beard, l’allenatore in seconda di Ted Lasso, colui che conosce il calcio molto meglio di Ted, è affidato il compito di consigliarci in quali libri andare a cercare tutte le verità sportive mentre parliamo di calcio. Parallelamente, a Roy Kent, il giocatore-capitano portavoce del calcio-che-fu sono affidate le letture pop.
Accanto a loro, si posizionano Ted e gli altri che in molti momenti della serie hanno vicino o hanno a che fare con un libro - sempre di carta, sempre significante per quello sviluppo della storia, sempre una porta che offre una digressione.
La piramide rovesciata di Jonathan Wilson è il libro manifesto: in italiano attualmente non è disponibile. L’edizione inglese invece è acquistabile.
È un saggio di storia della tattica, che mette in luce come i cambiamenti sono frutto di filosofie di gioco e anche di approccio al gioco culturali. È chiaro che in una serie come Ted Lasso questo libro diventa una sorta di Bibbia o di Libro delle Risposte, a seconda, e vale ogni scelta che Coach Beard pensa e propone in partita a Ted Lasso. La piramide rovesciata appare nel pilot quasi intonso e Beard è meravigliato nella lettura (l’altro libro del primo episodio è Coaching for Dummies).
Nella serie TV, il libro di Beard è segnato, ci sono punti che sappiamo lui sta studiando e sono quasi un avvertimento per ciò che vedremo sul campo e la lettura lo accompagna dall’inizio della serie fino all’ultima puntata della seconda.
I libri degli altri personaggi, invece, sono molto meno universali e si concentrano su dettagli.
A Roy Kent, che fa un percorso personale di ampliamento di se stesso e di decostruzione delle sue fortissime opinioni sul mondo, soprattutto nella seconda stagione, i libri servono per rendersi conto della realtà fuori dai campi di calcio. Persino la finzione lo coglie impreparato e pare spesso un bambino che crede a ogni storia che gli raccontano, almeno finché non inizia a domandarsi se è davvero successo. La sua nemesi, Jamie Tartt, infatti, non legge mai, nemmeno di nascosto e anzi getta via un libro nella spazzatura: è Belli e dannati di Francis Scott Fitzgerald.
Ma quanti libri ci sono dentro Ted Lasso?
Parecchi. Danika Ellis su Bookriot fa una cosa eccezionale: mette in lista tutti questi libri e anche di più, episodio dopo episodio, incasellandoli nel momento preciso della serie. Grazie Danika.
Scrivo cose, vedo gente
Su l’Ultimo Uomo ci sono due articoli di sport femminile (più o meno):
la storia (assurda) della tennista cinese Peng Shuai, censurata in Cina.
la storia (di successo) di Alexia Putellas che ha vinto il Pallone d’Oro femminile nel 2021.
E poi su ilLibraio.it una lista di 30 libri usciti nel 2021. È un pezzo collettivo, io ho scritto de Le divoratrici di Lara Williams, pubblicato da Blackie Edizioni con la traduzione di Dafne Calgaro e Marina Calvaresi.
Ancora, sul numero della newsletter Senza Rossetto dello scorso 29 ottobre c’è una mia riflessione sul calcio femminile che si intitola Dilettanti e professioniste.
Infine, con la crew di Zarina abbiamo selezionato quattro podcast di sport femminile per Orecchiabile: sono tutti in inglese. È un numero della newsletter, lo puoi recuperare qui.
E a proposito di podcast, c’è sempre Goleadora.
Per questo numero è tutto e pure per questo primo anno.
A presto!
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Vivo a Milano dal 2007, con Simone dal 2012, con Paolo dal 2016 e vicino alla Martesana con molte piante dal 2020. Collaboro con L’Ultimo Uomo e ilLibraio.it e mi trovi qui, su Instagram e (poco) su Twitter. Ho scritto due libri: l’ultimo si intitola Steffi Graf, lo ha pubblicato 66thand2nd e racconta la carriera in singolare della prima tennista a cui mi sono appassionata.