Ci proiettiamo in un ottimismo senza senso: quello sensato è complicato da digerire.
Applicando il buon senso, possiamo immaginare di gustare un caffè all’interno di un bar al mattino per al massimo sette giorni di seguito, niente altro.
Allora stiamo al di qua, fotografiamo il sole dalla finestra; controlliamo quanto pagheremmo per andare in Polinesia, mentre mandiamo a quel paese la newsletter dei viaggi: siamo in un futuro che non ha calendario e se dovessimo realmente scegliere un giorno per organizzarci, il gesto sembrerebbe subito vano.
Quando si potrà, dove andrò?
Ho promesso a Paolo di portarlo a Roma.
Questa promessa arriva da lontano: non ci è mai stato, sa che ci sono amici che ci abitano, è per lui un posto dove si svolgono alcuni dei suoi racconti esotici. A volte mi dice: «Mamma, lo sai che i miei topi [o altri animali] abitano a Roma?», immaginando amici di varie specie in giro per l’Italia e per il Mondo, quelle parti che gli raccontiamo, luoghi dei nostri viaggi passati, posti che non conosce ma di cui sa l’esistenza, fatti di persone care, posti memorabili, occasioni irripetibili.
Quando si potrà, dove andrò?
È da Natale che penso di non rimandare più i caffè e gli incontri in giro per la mia città. Non rimanderò più le sortite in libreria, o «beccare» qualcun* a un incrocio: mi basterà fare due passi insieme, attraversare la strada, invece di cercare per forza il momento qualitativamente perfetto, al bar giusto, nel giorno di sole. Non riesco a pensare di tornare a Buenos Aires, ma immagino di conoscere la piccola E. a Bergamo, o di rivedere una persona che abita dall’altra parte di Milano, vicino al negozio di dischi che non ho ancora visitato o di fare una deviazione la prossima volta che sono sull’A14 per tornare in Molise.
Paolo immagina i desideri, io vorrei riviverli per rassicurarmi, per sapere di esserne ancora capace. Mi dispiace: non ho pensieri esotici, mi mancano i luoghi perché mi mancano le persone e mi manca l’orizzonte perché mi manca poterlo guardare con qualcun*.
Grazie di essere qui. Cominciamo.
Benvenut* su Novelz, la newsletter che nel 2003 sarebbe stata un blog, dove troverai due storie di tennis, un libro e alcune storie scritte da altr*.
Il brutto dell’ananas
Il rito della premiazione dei tornei di tennis è molto ripetitivo: fino al 2020, si premiava sul campo, si dicevano due parole per ciascuno, con un microfono ben piazzato sotto alla bocca; organizzator* e giocator* si scambiavano strette di mano, paroline di ammirazione e, a discrezione dell’atleta, si intratteneva almeno un po’ il pubblico. Infine, si pagavano tributi a quante più persone possibili.
A Wimbledon le cose sono state sempre un po’ peculiari. Innanzitutto perché c’è il Royal Box da omaggiare e non si può evitare. Si aspettava la discesa dei rappresentanti reali: non c’era fretta, la televisione aspettava, chi commentava doveva trovare qualcosa da raccontare sull* sportiv*, sui record, anche quelli dimenticati, ma soprattutto su meriti e fatiche. Poteva essere la celebrazione commovente e imbarazzata della prima o al contrario sfacciata e assoluta dell’abbondanza.
Si piangeva, si rideva, l’adrenalina scendeva e ogni volta si chiudeva un cerchio durato una o due settimane, con punti persi, giochi vinti e il ricorso alla retorica, che si impossessava di chiunque. Ogni tennista si infilava nella tradizione: copiava l’idolo, seguendo il copione iniziato da altr* decenni prima.
Scrivere i discorsi di premiazione potrebbe essere un lavoro: dare un segno di diversità a ognun*, immaginare parole adatte in modo peculiare a un* rispetto a un* altr*. Mettere un po’ di anima all’atleta, quando non ne può più e vorrebbe solo andare a dormire.
«Che ci importa delle parole», dici.
«La partita è tutto quello che conta», aggiungi.
Potrebbe però essere un modo per evitare di dare tanta attenzione ai trofei.
Nel momento culmine, a volte nella più tenera commozione, scende il gelo sul mio viso e si palesa il pensiero che vorrei rinnegare. Esiste, lo ammetto: la bruttezza del tennis sta in certi primi turni del singolare maschile (umorismo) e nella maggior parte dei trofei.
Il piatto di Wimbledon è l’unico da salvare: lo scrivo.
Lo riceve la vincitrice del singolare femminile, mentre la coppa del singolare maschile ha un’ananas sulla cima. Non sto scherzando:
Il motivo della presenza dell’ananas è che nei secoli scorsi era impossibile trovare questo frutto in Gran Bretagna, dunque si importava e arrivare a una festa con un’ananas era un un segno di distinzione e un regalo pregiato − pensati barocc* o in vittorian* mentre varchi una soglia con un’ananas in mano.
Ci sono ananas sui cancelli delle case signorili nel Regno Unito: è per indicare, infatti, nobiltà e rarità.
Se Wimbledon setta un’asticella sì fatta, per gli altri è una gara alla tragedia estetica (il Roland Garros mantiene un certo contegno: siamo nell’ambito delle insalatiere comunque, ma meglio di altro); prendi ad esempio il trofeo del Madrid Open:
Oppure quello di Acapulco maschile con una pera (cliccare per credere) e dell’ATP di Dubai, dove vige il tema piratesco (pensa se fosse l’unica vittoria della tua carriera) o del Mubadala World Tennis Championship, edizione 2013:
E infine, cronologicamente parlando, per il primo torneo del 2021 a Abu Dhabi, il primo torneo femminile dell’anno, con cui si sarebbe potuta scrivere una nuova pagina piena di speranza, la premiazione è finita nel modo seguente:
Intenti per una vita futura: disegnare il più bel trofeo che la storia del tennis abbia mai visto. Lo meritiamo.
Superare i limiti?
Francesca Jones è una tennista, ha 20 anni, è britannica. È nata con la sindrome da displasia ectodermica ectrodattilia (EEC), che non ha permesso ai suoi arti di svilupparsi con tutte le dita: ne ha 8 nelle mani e 7 nei piedi. Si è sottoposta a diversi interventi al polso, ma ogni volta che un medico le ha detto che non avrebbe mai potuto giocare a tennis, si è allenata lo stesso per farlo a livello professionistico, perché è una delle cose che la diverte di più.
Quando ho letto di lei la prima volta era qualche anno fa: durante i campionati juniores di Wimbledon; come spesso accade nella cronaca sportiva si cede al racconto del superamento dell’ostacolo per raggiungere un bene superiore: c’è una difficoltà, la si supera. L’atleta è programmata per questo.
Sono andata a rileggere l’articolo del Guardian, perché ricordavo solo ciò che mi colpì subito: non si raccontavano le sue caratteristiche di gioco. L’articolo non è incluso nella sezione «Tennis» o «Sport» ma «Disabilità e sport». Il pezzo di Caroline Davies è interessante solo a metà, nella parte in cui dà voce alla tennista, lasciandole raccontare quello che crede opportuno sul modo in cui si allena, su alcuni aspetti quotidiani della preparazione e su come vede la sua carriera.
Nel 2016 avevo imparato chi era, ma non sapevo come giocava. Conoscevo il dettaglio delle sue unghie che si rompono perché tiene la racchetta molto forte nelle mani, per evitare che le scappi (niente di speciale: deve solo stare attenta, sottolinea) e infine che non è mancina, perché nel testo si parlava della sua parte dominante destra, in relazione alla funzionalità rispetto al tennis; non sapevo se avesse un buon dritto o una battuta potente.
Nei giorni scorsi si è tornato a scrivere di lei perché è entrata nel main draw dell’Australian Open che inizierà il prossimo 8 febbraio a Melbourne (se tutto va bene). I titoli per lei vanno da «Francesca Jones contro i pronostici» a «Il tennis dei miracoli», passando per «Il sogno Slam anche con quelle dita in meno» e le favole, le imprese, l’andare oltre i limiti a corollario.
Ho fatto un esercizio (è il 14 gennaio 2021): ho cercato in quanti articoli si nominasse il suo dritto, o il suo rovescio o entrambi, o magari il footage − il gioco di piedi: su cinque, una ricorrenza, come didascalia a una fotografia che la ritrae mentre effettua il rovescio bimane. Domanda: si può raccontare il tennis (lo sport) seguendo traiettorie che non partano dall’abilismo?
Un passo indietro
Mi viene in mente un episodio del Roland Garros 2018, quando Serena Williams giocò con una tuta contenitiva; l’occasione − inusuale per lo standard di abbigliamento − nasceva da un problema di salute: prevenire coaguli di sangue, a causa di un post parto complicato, avvenuto solo qualche mese prima. Il Roland Garros la prese sul personale: quello, sentenziò, non era l’abbigliamento adeguato.
Non esisteva un dress code specifico al torneo, che ponesse dei limiti e non c’era una regola esplicita e generale che vietasse l’uso dei pantaloni sportivi (ad esempio nel 1985 un’altra tennista, Anne White, li usò a Wimbledon).
Il motivo per cui te lo racconto (o te lo ricordo) è che nel 2018 la rappresentazione che Serena fece di sé divenne un problema serio: il corpo vestito in un certo modo per far fronte a un problema, la tuta medica che fu anche molto cool e non aveva niente della malattia ma tutto della supereroina, la tennista che non si crogiolò nel pensiero «non vengo, sono malata», ma nel «trovo un modo per giocare, perché è quello che so fare», fu naturale per Williams, ma creò un cortocircuito, un’ anomalia che andò indagata, normalizzata, marginalizzata e in certi casi osteggiata. E Francesca Jones, che racconta la routine d'allenamento usando le parole dell'abitudine, suscita meraviglia e curiosità.
Esistono situazioni possibili completamente invisibili in cui il linguaggio non torna utile, l’approccio fino a quel momento usato fa cilecca; in cui una regola deve essere scritta per essere accettata e in cui un’atleta può infilarsi perché ne ha bisogno, ma dovrà sobbarcarsi, a seconda della situazione, di un peso di curiosità, di indignazione, di riflessioni continue, di domande sui suoi limiti ribelli. Queste cose non hanno niente a che vedere con chi è protagonista, ma con chi guarda o scrive.
La questione della tuta di Serena Williams è stata il punto di partenza per un cambiamento importante per WTA (l’Associazione di tennis femminile) che nel 2019 introdusse ufficialmente una modernizzazione delle regole sull’abbigliamento, definendo qualche opzione in più rispetto al solito gonnellino: la tuta contenitiva fu salva, come anche i leggings. Tenniste come Fatma Al Nabhani dell’Oman ringraziarono, Iga Swiatek di recente ha evitato il raffreddore: con il pantalone al ginocchio ha vinto il suo primo Slam proprio a Parigi l’anno scorso, uno dei Roland Garros più freddi di sempre (è stato giocato a inizio ottobre).
Adesso è concesso, è messo nero su bianco, è scritto.
Se è scritto nel modo giusto smette di essere invisibile.
Tornando a Francesca Jones
Nel 2021, riusciamo a sapere come gioca Francesca Jones? Possiamo interessarci al suo corpo di atleta?
La risposta è no. O meglio: non riesco nemmeno a linkare un video che non ti catapulti in un torneo giocato da lei a 13 anni. Posso solo raccontarti che deve migliorare nella tenuta fisica e a 20 anni è un fatto comune, può evolvere il suo gioco nella tecnica difensiva, perché le manca ancora la completa copertura del campo e la capacità di mantenere il controllo dello scambio mentre difende un punto. Difendere, nel tennis, non è mai solo una questione di ritirata, è anzi spesso una questione di costruzione.
Francesca Jones non va oltre, non supera alcun limite, perché questo nelle nostre teste è appunto il nostro, quello di persone con 10 dita nelle mani e 10 nei piedi. Lei ci tiene a dire che si allena come chiunque altro e deve migliorare nell’atletismo per far fronte a certi momenti della partita (problemi di chiunque abbia 20 anni e giochi tornei che contano le prime volte); infine, Jones impugna la racchetta in modo più stretto: ha sempre fatto così e non c’è nulla di strano (circolare, circolare, non c’è niente da vedere).
Parteciperà al gioco dei grandi dalla posizione 241, sarà allo Slam di Melbourne per la prima volta e fra un po’ ci troviamo qui per sapere come è andata (se tutto va bene).
Schianto
8 febbraio 1989: un aereo parte da Orio al Serio (l’aeroporto di Bergamo) diretto verso le isole Azzorre, ma non ci arriva: 144 persone muoiono nell’incidente aereo, tra cui il padre di Cecilia, che ha 6 anni.
Azzorre è una storia autobiografica che racconta in stilettate e colpi precisi il viaggio di perdita e di ritrovamento affrontato da Cecilia 25 anni dopo quell’incidente. La mente della Cecilia ferma al 1989 ha incasellato un passato frammentato – succede a tutti: prova a farti venire alla mente l’immagine di tuo padre o tua sorella o chi vuoi quando avevi 6 anni – e per questo torna alla fine per riempire i vuoti e i buchi della memoria.
Sguardi, sorrisi, paesaggi si intersecano con la volontà di raccogliere i cocci, forse nemmeno per ricomporli, ma solo per vedere se ci sono dei pezzi andati smarriti che invece è il caso di recuperare e imparare. Non esiste tregua e la protagonista non la cerca: vuole ritrovare la strada, curare l’abbandono e lo fa mettendo piede, facendosi largo fisicamente, nel luogo della fine per definizione.
Leggilo se
Ti piacciono il romanzo intimista e le storie vere; ti piace affidarti alla voce che racconta e l’idea di un percorso che sembra già scritto quando inizia, ma invece si rivela un passo alla volta.
Scritto da altr*
A proposito di: un gruppo musicale, un libro e Edinson Cavani.
«Lo stile»
«That band is the most challenging, important, fulfilling thing ever to happen to me. I wish it was still here. It's something I really, really miss.»
(Jack White)
(Anche tu ci manchi molto.)
Il 21 ottobre 2005 al PalaDozza di Bologna, ho visto i White Stripes dal vivo. Unica data in Italia. Una bolgia sudatissima. Ero davanti. Non lo dimenticherò mai – e lo ricorda ancora pure il PalaDozza.
Nel 2020, il loro secondo album De Stijl ha compiuto 20 anni e ci sono stati larghi festeggiamenti che ho perso, recuperati solo una settimana fa; se come me hai mancato la gioia della nostalgia, ti consiglio il pezzo di Lizzy Goodman su Npr, da leggere mentre ascolti una playlist di 13 minuti, se ti va.
Il nero e l’argento di Silvia Pelizzari
Autostrada del Sud è una newsletter che racconta i libri, la scrive Silvia Pelizzari. Le recensioni sono interessanti perché in poche righe definiscono una sensazione precisa rispetto al libro che racconta.
Una delle rubriche di Autostrada del Sud è “Deviazioni”, in cui Silvia Pelizzari inserisce un libro in un racconto più personale. È interessante il modo di rapportare una lettura a chi la scrive. Nell’ultima puntata di Autostrada del Sud si parla proprio di “Deviazioni” riguardo a Il nero e l’argento di Paolo Giordano, forse il romanzo più sottovalutato tra quelli dell’autore. Cito:
Il nero e l’argento è principalmente la storia di uno sguardo. O meglio, di uno sguardo che viene meno. La storia della traiettoria che ha unito quella famiglia alla signora A., la storia della sua presenza e di come quella presenza proteggesse - consciamente o meno - tutti loro.
Silvia Pelizzari ricorda ogni cosa le sia successa mentre leggeva questo romanzo, a un certo punto ci interessa poco se le è piaciuto o meno o perché dovrebbe piacere a noi: ci interessa solo qual è la sua storia. Sua di Silvia, intendo.
A Autostrada del Sud ci si iscrive qui.
C’è stato (c’è?) un caso Edinson Cavani
Daniele Manusia, su l’Ultimo Uomo lo riassume in questo modo:
Dopo i due gol in un quarto d’ora con cui Edinson Cavani, entrato nella ripresa, ha ribaltato (da 2-1 a 2-3) la partita tra Manchester United e Southampton – più di un mese fa – sulle sue storie Instagram ha condiviso il post di un suo amico/fan che aveva scritto su una sua foto una cosa del tipo “ti voglio così”, a cui Cavani ha risposto “gracias negrito”. In seguito a una lunga indagine (più lunga di quanto ci voglia a leggere un post su Instagram) la FA ha deciso per una squalifica di tre giornate per via di quella che considera una “grave violazione” del proprio regolamento.
Ne è nata una polemica, in cui sono entrati: Edinson Cavani, la Federazione inglese, l’Associazione calciatori uruguaiana, l’Accademia delle Lettere uruguaiana e la Confederazione sudamericana.
Daniele Manusia si fa una domanda importante – la più importante secondo me – ed è la seguente: A chi fa comodo eliminare le sfumature?
La risposta è una riflessione sulle parole, sul loro significato, sul fatto che ci sono dei casi in cui il contesto e l’intenzione non ne motivano l’uso, anche se è parte della lingua. Ma di quale parte, esattamente?
Per questo numero è tutto.
A presto!
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