Per il mio esame di maturità (giugno 2001) la terza prova scritta era composta per una buona parte da domande di fisica. Le saltai a pie’ pari.
All’esame di ammissione all’Università, poche settimane dopo, lasciai la sezione di logica in bianco.
Alla maturità non potevo colmare lacune che il commissario esterno di fisica non avrebbe sottovalutato e, deglutendo, ho detto tre o quattro «Non lo so». All’esame di ammissione per entrare all’Università eravamo talmente tantə per relativamente pochi posti che ero convinta che non sarei mai entrata.
Avevo passato settimane dentro gli Alpha Test, avevo cercato di assimilare la cronaca, avevo ristudiato la Storia contemporanea mentre succedeva l’attacco alle Torri Gemelle, ma la logica era uno sforzo inutile: non sarei mai arrivata a un livello decente.
Come per la maturità feci un calcolo preciso: potevo rinunciare a pie’ pari a una intera sezione d’esame se tutto il resto fosse stato perfetto. «Non è impossibile», mi dicevo, «certe cose in fondo le imparo più in fretta».
Alla maturità ottenni 90/100, alla fine, e quel volto mi servì per la graduatoria dell’esame di Università. Esclusa fisica, feci tutto meglio di quanto mi aspettassi. All’Università entrai, posizionandomi circa a metà classifica. Esclusa la logica, avevo fatto tutto meglio di quanto mi aspettassi. Davanti avevo chi alla maturità aveva preso 100/100, e chi evidentemente sapeva più di me.
Tra la maturità e l’esame di ammissione non misi in pratica una cosa che ho affinato dopo, lavorando: non so fare tutto, ma posso imparare molto. Posso spacchettare le cose in pezzi piccoli, analizzarle in modo tale che entrino in una mano, ridurle in particelle, anche se di fisica so poco.
Le mie particelle cambiano dimensioni a seconda dei periodi e delle energie, ma non superano comunque una certa dimensione: stare nelle cose piccole, misurarmi con quello che riesco a controllare mi aiuta a fare ciò che penso di non sapere fare o non riuscire a completare. Nei pezzettini sto protetta: ho davanti un puzzle, basta solo cercare il mio modo per comporlo.
Non so se conosci 16 Personalities: è un sito piuttosto famoso, ma l’ho scoperto solo grazie alla mia amica Francesca poco più di un anno fa. Non sono mai contenta del risultato dei test sulla personalità, guardo tutte le soluzioni per sapere se qualche profilo è più interessante del mio – anche i test sul Cioè li compilavo a mente, per non lasciare segni di matita sulle pagine e non dargli soddisfazione.
Il test di 16 Personalities funziona nel modo seguente: si risponde a una serie di domande e si rientra in un tipo umano, che è fatto di punti di forza, di debolezza, e fornisce una «spiegazione» a ciò che si fa in un certo modo invece che in un altro. È utile per cercare lavoro, per capire cosa si vuole fare, per quale ragione e in che modo. Per cercare i progetti giusti da intraprendere, anche solo per fare un po’ di pace con se stessi.
Se non fosse stato per Francesca non sarei arrivata in fondo: diciamoci la verità. Lei mi faceva le domande e io rispondevo, a lei riesco a rispondere praticamente a tutto. A quel punto ho dato il mio indirizzo e-mail a 16 Personalities e ricevo i loro messaggi periodicamente, e ognuno ha suggerimenti corretti, di buon senso, adatti a me, su un argomento preciso (emotivo o di approccio ai problemi, per lo più). Niente che, forse, un minimo di consapevolezza non possa portare, ma a volte farsi le domande è faticoso. A volte servono le domande giuste, e non è detto che tu sappia portele.
Il mio tipo umano è l’Advocate: «someone with the introverted, intuitive, feeling, and judging personality traits» che approccia la vita con profonda riflessione e capacità di immaginazione. Tra le caratteristiche principali del suo modo di essere c’è la parcellizzazione dell’analisi.
Tout se tient.
Grazie di essere qui. Cominciamo.
Benvenutə su Novelz, la newsletter che finalmente ha adottato la «ə» e che nel 2003 sarebbe stata un blog, dove troverai tre curiosità sull’Australian Open, una riflessione sull’affaire Margaret Court Smith, una serie TV uscita da poco che ho incredibilmente visto anche io, alcune storie scritte da altrə e cosa ho fatto nelle ultime settimane.
Lo Slam alla fine del mondo
Finalmente ci siamo: il prossimo lunedì 8 febbraio inizia l’Australian Open, edizione 2021 con il pubblico sugli spalti. Il virus ha fatto il giro del mondo e un giro di anno, e l’Australia ha trovato la strada per non rinunciare all’estate, all’Australian heat e a giocare lo Slam con una parte del pubblico.
Vagabondo
Dal 1905, anno di nascita, l’Australian Open si è giocato in cinque città diverse: Melbourne (62 volte), Sydney (17 volte), Adelaide (14 volte), Brisbane (8 volte), Perth (3 volte), e 2 volte in Nuova Zelanda.
Indeciso e Distante
Dalla nascita e fino al 1987, l’Australian Open si giocava sull’erba; dal 1988 si gioca sul cemento (il primo sulla nuova superficie lo ha vinto Steffi Graf), e prima di stabilirsi a metà gennaio (quest’anno è un’eccezione) si giocava a dicembre.
Le sorti dello Slam alla fine del mondo sono state a lungo altalenanti, prima di acquisire uno status preciso, così come lo conosciamo oggi.
Gli anni Settanta sono stati probabilmente il momento peggiore, appena dopo l’inizio dell’Era Open (la nascita dell’Era Open è il 22 aprile 1968); nel 1977 si è giocato due volte, una a gennaio e una a dicembre: gli organizzatori del torneo erano disperati, perché gli atleti lo snobbavano, si rischiava l’irrilevanza, la distanza certo non aiutava e per sperare in una partecipazione più larga nel 1977 si provò a organizzarlo ben due volte, ma le cose non andarono bene.
Almeno per i primi 15 anni dell’Era Open, infatti, andare a giocare in Australia non era per tuttə: era, letteralmente, dall’altra parte del mondo per la maggior parte dei tennisti e il montepremi era troppo basso per giustificare le spese. Inoltre, volare in Australia tra Natale e Capodanno non piaceva.
Bisogna aspettare il 1983 per vedere un barlume di rinascita, e poi il fatidico 1988, l’anno che cambiò il tennis in almeno due modi, e uno di questi riguarda l’Australian Open: cambio di superficie, aumento del montepremi, nuovo impianto sportivo, più largo e completo del precedente.
Isolato
Tra le non australiane vincitrici dello Slam una delle mie preferite è Virginia Wade, campionessa nel 1972 contro Evonne Goolagong. In un decennio, dal 1969 al 1979, sono solo due le non australiane a vincere lo Slam: una di queste isole è Virginia Wade.
Fascino peculiare, dagli occhi trasparenti come d’acqua, dotata di tanta tenacia, quanto di velocità e di leggerezza, tagliata per l’erba, Virginia Wade è entrata subito nel mio cuore.
Nomi, cose, città
Uno degli stadi del Melbourne Park Arena, l’attuale impianto sportivo che ospita lo Slam, è intitolato a Margaret Court Smith, ex tennista australiana, che detiene il record femminile di vittorie negli Slam: 24, uno solo in più rispetto alla seconda, Serena Williams, e due sopra la terza, Steffi Graf. Di questi 24 titoli, 11 sono stati conquistati all’Australian Open a partire dal 1960. Inoltre, Court Smith è una delle sole tre giocatrici ad aver conquistato il Grande Slam (le altre due sono Maureen Connolly e Steffi Graf).
Margaret Court Smith è sotto ogni aspetto numerico e di vittorie una campionessa, in Australia è da sempre una star, e come ogni campionessa è stata toccata da rivalità eccellenti e da detrattori furenti.
Nel suo caso, sono spesso state rivalità anche fuori dal campo: la più iconica è stata quella con Billie Jean King, raccontata abbastanza bene anche in un film del 2017, The Battle of The Sexes, con Emma Stone e Steve Carrell che interpretano rispettivamente Billie Jean King e Bobby Riggs, protagonisti di una storica partita giocata il 20 settembre 1973, in cui in palio c’è stata una certa idea del mondo.
La prima battaglia dei sessi, però, vede opposti Margaret Court Smith e Bobby Riggs.
Nel film The Battle of The Sexes il motivo per cui Billie Jean affronta Bobby è proprio perché Margaret non è riuscita a dire di no, ha gareggiato e ha perso e per Billie Jean diventa una questione di rivincita dell’intero movimento femminile di tennis, diventato indipendente pochi anni prima soprattutto per volontà sua.
Fin dagli anni Settanta, Margaret Court Smith abbracciava idee retrograde – anche questo aspetto nel film viene fuori bene – e oggi è un baluardo attivo di un certo tipo di conservatorismo, che nega i diritti civili di base agli omosessuali; è la ministra di una Chiesa cristiana e nel 2017, quando l’Australia è stata chiamata a decidere sull’argomento dei matrimoni gay tramite referendum, Margaret Court Smith si è dichiarata apertamente contro, ha rilasciato dichiarazioni oltre l’accettabile per quasi tutti i tennistə e gli operatorə del tennis; da allora in modo più fervente e partecipato, molti ex colleghi e tennistə in attività si sono decisi a esprimere opinioni a riguardo e a chiedere di rititolare lo stadio.
I don’t know who makes the final decision on that but I don’t think her values are what tennis stands for.
(Andy Murray)
Nel 2020 la protesta di Martina Navratilova e John McEnroe contro Margaret Court Smith è stata ripresa da tutto il mondo, ha violato le regole, ha fatto un po’ arrabbiare gli organizzatori, ma soprattutto ha suscitato una risposta piccata da parte di Court Smith che mai si sognerebbe, ha detto, di andare in un altro Paese a sindacarne le scelte.
La controversia, in sostanza, è questa: il senso comune di pensare a Margaret Court come una leggenda del tennis è stato surclassato da un’identità diversa, quella di una fanatica anti-gay? Il nome “Margaret Court,” se affisso su uno stadio del tennis, non riporta più alla mente una grande atleta, ma solo una bigotta implacabile?
(Gerry Marzorati nel 2019 sul New Yorker)
Nonostante la reprimenda a Navratilova, soprattutto sulla questione delle regole, quest’anno, per la prima volta, Margaret Court Smith non è stata invitata all’Australian Open.
Esistono sfumature tra chi si è distinto particolarmente solo nell’ambito del campo e chi lo ha fatto anche fuori, elevando la sua partecipazione a confronto sociale: non sono stati tutti Arthur Ashe in carriera, per citare un esempio tra i più popolari, ma ci sono molti modi per rappresentare uno sport, per supportarlo, per accompagnarlo: uno di questi è poter o meno essere uno dei simboli che si sceglie. Il nome su un’affissione, un nome che risuona nelle telecronache di tutto il mondo, un nome che verrebbe pronunciato in molti momenti, alcuni dei quali a loro volta simbolici – presentazioni, conferenze stampa, premiazioni, indicazioni in sovrimpressione in ogni TV – non è un nome qualunque.
Margaret Court Smith ha dimostrato di essere completamente fuori da ogni esercizio di inclusione e lontana dai valori di diversità che il tennis, come ogni altro sport oggi, dovrebbe supportare e per questo la situazione è diventata molto complicata.
Indicare la via
In un saggio recente pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri intitolato Le vie che orientano, tradotto da Francesca Pe’, l’autrice Deirdre Mask, avvocatessa e scrittrice afroamericana, cerca di spiegare, attraverso esempi concreti da tutto il mondo perché il nome di una strada è una questione culturalmente importante, che ha a che fare con la Storia, con chi la scrive e chi la subisce, mentre cerca un po’ di giustizia.
Nella prefazione, Mask si pone la domanda che farà da linea guida al libro: «Perché i leader di una comunità sprecano tempo a preoccuparsi del nome di una via?» e partendo dal West Virginia, dall’India, passando a Londra, Berlino o al Giappone, finisce per rispondersi che il punto è dare lustro a una persona o a un evento o per contro ribellarsi a qualcosa, mancarlo, in un certo senso oscurarlo. Si tratta di avallare una storia o l’altra, provare a dare per scontato che quel che è fatto è fatto, ciò che è dato non si può modificare oppure cercare di proporre un’alternativa, a volte una via d’uscita per un intero gruppo di persone che esiste, ricorda, probabilmente soffre.
Quando si guarda uno stadio (vuoto o pieno non importa) per prenderlo tutto con una sola occhiata si fa un giro su se stessi, si fa un movimento completo, e si guarda verso l’alto: gli spalti, le tribune, fino al tetto, se c’è. Si fa lo sforzo, quindi, di immaginare o di prendere in considerazione un mondo intero. Lo stadio non è un luogo parziale; uno stadio durante una partita o un torneo è il mondo intero, diventa un luogo dotato di senso e nominarlo in un certo modo o in un altro permette di scrivere la storia secondo un punto di vista ben preciso.
Ethos (senza spoiler)
Ethos è una serie turca uscita da poco su Netflix e racconta, in modo corale, i rapporti di diversi personaggi con il passato e il presente, con la religione e la società, con i cambiamenti quasi mai indolori che la Turchia ha visto negli ultimi anni.
I destini dei personaggi sono interconnessi tra loro, a volte per caso; ognuno proviene da contesti sociali differenti, e affronta problemi personali diversi. Ciò che li tiene insieme è Istanbul.
Ciò che mi ha colpito maggiormente è il tratto molto realistico. Gli episodi a tratti sfiorano il documentario, nel senso che la città, Istanbul, non è ovattata, i dialoghi non sono filtrati (i curdi parlano curdo sottotitolato), le esperienze non sono mediate e ogni caratteristica di un personaggio che viene fuori oppure ogni fatto rappresentato lasciano l’idea che un’altra visione è sempre possibile.
L’approccio realistico si fonde con i temi principali: le relazioni, la psiche, i traumi esterni e interni, le connessioni, il clima politico turco. Ethos problematizza, fa domande, più che raccontare una storia, anche perché una sola storia non c’è: ce ne sono diverse e contrarie.
Guarda il pilot se
Non disperi trovandoti di fronte a poca azione, ma a tanti dialoghi; se ti piacciono le storie in cui i personaggi affrontano un cambiamento continuo e che hanno una funzione corale.
Scritto da altrə
A proposito di: parlare in pubblico, Gilmore Girls (e non solo), body positivity e come si sviluppa il razzismo.
L’abito e il monaco
I TED Talk sono divertenti, piacevoli: quando li ho scoperti è stato amore a prima vista. Forse anche tu ne sei appassionatə, ma a un certo punto, quando sono cresciuti, e il numero è aumentato esponenzialmente, ho iniziato a perdermi.
Per fortuna Ciccio Rigoli, nella sua newsletter Non proprio. Una newsletter fino a un certo punto ne suggerisce uno alla volta, con una motivazione precisa. Nell’ultimo numero, dal titolo «Vestiti bene, mi raccomando» ne indicava uno di Chip Kidd su come sono nate le copertine di alcuni libri, tra cui 1Q84 di Murakami Haruki.
Il video è questo:
Secondo Ciccio Rigoli spiega molto bene cosa significa presentarsi in modo efficace. Le scelte di Non proprio hanno a che fare con il parlare in pubblico, che è il tema centrale. È una newsletter utile e interessante e se vuoi ti puoi iscrivere qui.
Una forma laterale di binge-watching
Un anno fa a gennaio dormivo poco e, a parte guardare l’Australian Open in diretta e a orari improbabili, ho ricominciato dall’episodio 1 della stagione 1 una serie TV che amo molto: Grey’s Anatomy.
È una di quelle serie che mi porto dietro da molti anni e non ho intenzione di lasciare. Durante la prima quarantena, molte persone non sono riuscite a leggere, a concentrarsi su attività ludiche o di pensiero creativo che non fossero attaccate al presente che stava scivolando. A me è successo con le serie TV. Ho preferito rifugiarmi nei vecchi amori.
Sembravo Paolo, mio figlio, quando vuole leggere sempre la stessa storia perché sa esattamente come va a finire.
No surprises, please.
Il re-watching è una pratica comune (magari a stagioni o gruppi di episodi); a me è successo di notare passaggi nuovi, oppure rivalutare alcune puntate, di imparare dialoghi che avevo tralasciato, di notare piccole sfumature che con il binge-watching scappano perché sei concentrato sulla trama, sull’evoluzione della relazione di turno.
(Mi accade anche con Il conte di Montecristo: è il mio libro da rilettura − ogni due anni lo riprendo in mano − e so, in un certo senso, di non averlo ancora finito.)
Di recente ho scoperto che una ex giornalista di The Atlantic, Maggie Mertens, insieme a Megan Burbank, reporter del Seattle Times, riguarda gli episodi di Gilmore Girls e, commentandoli, ne ha fatto una newsletter a quattro mani: è su Substack, è gratuita, quindi puoi leggere qualcosa senza iscriverti. Se ti mancano le ragazze Gilmore, clicca qui.
È divertente, se ti piace la serie ovviamente, è interessante il meccanismo della rilettura: pensare in modo diverso a dialoghi o situazioni. Rivalutare, scegliere di nuovo, ma una cosa altra, capire un personaggio o al contrario rimanere ferma su una percezione che si possedeva già.
***
Se potessi scegliere, a parte Grey’s Anatomy, rifarei il ripassone generale di Beverly Hills 90210, non so se hai visto il remake dello scorso anno (io sì), ma ci ha già pensato Dr. Manhattan e quindi, se lo conosci, digli pure un sentito grazie da parte mia.
Ha iniziato con la prima parte del pilot lo scorso lunedì 1 febbraio, lo trovi qui, si intitola: «Finti giovani vestiti malissimo che ballano male»: è già un programma.
Body positivity su Instagram e TikTok
TikTok and Instagram are far from the first internet spaces to prove toxic for young women’s body image. When she was 13 and 14, Ogunbayo was active on Tumblr for its thriving One Direction and Sherlock fandoms, but like nearly every teenage girl who spends enough time on Tumblr, she was exposed to pro-anorexia, or “pro-ana,” content in which people with disordered eating habits documented their weight loss in “body checking” photos and shared tips on how best to starve themselves without dying.
Lo scorso 13 gennaio su Vox è stato pubblicato un articolo di Rebecca Jennings, che ho recuperato grazie alla Ghinea di gennaio.
Rebecca Jennings fa una riflessione molto lunga e composita a partire dell’esperienza di Morayo Ogunbayo, studentessa di college diciannovenne, ritrovatasi sui social quali TikTok o Instagram più del previsto durante la pandemia.
L’articolo di Jennings è abbastanza corposo; cerca di mettere in fila moltissimi aspetti sulla nascita e l’evoluzione della cultura «body positivity», per farne un quadro completo e attuale. Passa in rassegna questioni storiche, esperienze personali, la rappresentazione sui social network, cita studi e libri pubblicati di recente.
Siamo diventatə più bravə man mano che abbiamo affinato le capacità sociali digitali? E soprattutto: i social network sono il posto giusto per affrontare certi argomenti?
The paradox of online “body positivity” si può leggere per intero qui.
Il percorso del razzismo
Secondo May Ling Halim, professoressa associata di psicologia alla California State University di Long Beach, e Sarah Gaither, assistente di psicologia e neuroscienze alla Duke University, si può stabilire con una certa accuratezza il percorso che fa il razzismo: parte da una premessa fondamentale, che accompagna ogni sviluppo e ogni crescita di ogni individuo.
Impariamo categorizzando e sperimentando un io/noi e un loro/altri continuo. Lo facciamo quando impariamo a parlare, ad esempio: mettere insieme i suoni non è altro che un modo per accostarli e sistematizzarli in categorie di senso. I bambini riconoscono la diversità in ogni luogo che frequentano, quindi, ci crescono assieme e non ha senso negarla. Il primo passo per crescere bambini inclusivi è dir loro che le differenze esistono e ognuno è fatto a modo suo e va benissimo così: in tal modo imparerebbero ad accettare chi è diverso solo per il fatto che esiste, senza bisogno di giustificazioni.
L’articolo è della CNN, è datato giugno 2020 e lo puoi leggere qui.
Scritto da me
Un libro che ho letto
Tredici lune di Alessandro Gazoia è uscito lo scorso 28 gennaio per Nottetempo. La mia lettura inizia in questo modo:
Nessun 9 marzo sarà più lo stesso, d’ora in avanti.
Riportando alla memoria fatti accaduti decenni prima, asseconderemo il desiderio e assieme la repulsione di ricordare, di non tacere nulla; ogni 9 marzo saremo daccapo. All’inizio per un intero giorno, poi per sempre meno tempo daremo alla celebrazione del massimo disagio collettivo vissuto dal secondo dopoguerra una connotazione più lucida e più distante. Useremo un concetto, “distanziamento“, con meno disagio, meno apprensione.
Tredici lune e Alessandro Gazoia ci lasciano il dubbio di dove (e se) siamo davvero arrivati continua su ilLIbraio.it.
Vedo gente (online)
Lo scorso 27 gennaio sono andata con «Steffi Graf» a Catania, per incontrare Valerio Musumeci alla Legatoria Prampolini/Libreria Vicolo Stretto. Abbiamo parlato molto del libro, di cosa ci ho messo dentro e cosa ho fatto per scriverlo.
Puoi riguardarci qui.
Per questo numero è tutto.
A presto!
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