Mi è venuta la fregola delle piante.
La chiamo «fregola», sì: devo essere onesta, perché parte del mio tempo libero lo sto usando cercando vita morte e miracoli delle piante. Soprattutto miracoli, utili per sapere come rimediare agli inevitabili errori: quelli del principiante, ma anche quelli dovuti alla goccia in più d’acqua, che è il pensiero indifeso ma pericoloso del «che sarà mai».
Il mio Shazam delle piante (ne vedo una, la fotografo e scopro che pianta è, cosa mangia, quanto beve e se sta bene esposta a Nord, a Sud o è se è una pianta da interno) è Michela, è una fiorista.
Non ho il pollice verde, mai avuto, non so nemmeno esattamente come si misura né la sfumatura esatta che dovrebbe avere, ma ho sempre vissuto in case in cui il pollice verde ce l’avevano altrə. L’ho visto all’opera, posso dire, in modi diversi ma con un medesimo occhio: a un certo punto, succedeva sempre, c’era lo sguardo pieno di senso che, intento ad abbeverare qualcosa, scorgeva un affanno, un sospiro, un lamento, una foglia da cui si sarebbe originato il male, insomma: l’occhio verde, più che il pollice verde. Mi ha sempre colpito l’occhio, più delle mani, di chi se ne intende.
A Bologna c’era Annalisa che più o meno aveva il pollice verde: si ostinava spesso a comprare piantine di pomodori che finivano sul balcone che dava sul cortile. Tanto sole, un po’ di riparo e nessuna automobile. Non abbiamo mai mangiato pomodori, ma la speranza era molto contagiosa.
A Milano c’è stata Roberta: piante grasse, per lo più. È sempre stata una persona realista.
Poi, Simone, con gli strumenti da giardinaggio, una volontà di inizi molto pronunciata e un po’ di pigrizia che sopraggiungeva all’improvviso: l’inverno, il freddo, troppa acqua, troppo poca.
Infine, da piccola ho avuto la possibilità di osservare mio padre alle prese con le aiuole di piante, di arbusti e di fiori verdeggiare e fiorire, riempendo le estati di casa al mare e poi di vedere in azione la libertà senza pari degli oleandri: quelli che si trovano pure lungo l’Autostrada 14. L’oleandro è uno degli arbusti tra i più menefreghisti: cresce dove gli pare, invade il guard rail, sventola e non si spezza.
Mi hanno detto che la cura delle piante somiglia all’impegno di cura deə figlə piccolə quando non sanno ancora parlare. Non sono d’accordo: le piante non emettono vagiti, mentre iə figlə piccolə sanno adattare la voce, a seconda di ciò che vogliono e dire in questo modo ciò di cui hanno bisogno fin dal primo giorno.
Con iə figlə piccolə si può fare lo sbaglio, e lo si compie spesso, di non rispettare i limiti; loro non te lo fanno notare subito, a volte nemmeno lo dicono (si scoprirà tardi e dopo anni), mentre la pianta mantiene una ferrea volontà di ogni limite consentito, centrata sul presente o al massimo sul futuro prossimo, perché questi sono i suoi orizzonti; non parla e non si muove, d’altronde, non può scappare.
Se non la comprendi, muore. Se non la ascolti, muore. Se la tratti con sufficienza, soffre. Se non le dai la giusta dose di attenzione – luce, acqua, cura – lo fa pesare, lo fa notare, fa sentire in colpa, iniziando a ingiallire, a perire, pian piano, in modo lento e progressivo, mentre ci si domanda cosa si è sbagliato almeno un milione di volte.
Nella mia infanzia ci sono stati due alberelli, due arbusti dello stesso tipo, uno nell’orto sotto casa a Casacalenda e uno nel giardino della casa al mare, piantati il giorno della mia nascita: erano esemplari della Caesalpinia gilliesii, detta anche Poinciana, ma noi la chiamavamo Pavoggiana.
Siamo cresciuti insieme, le due Pavoggiane e io, con una differenza sostanziale: non ho mai misurato, né conosciuto da vicino l’alberello nell’orto, perché riuscivo a guardarlo solo dalle finestre dell’ultimo piano di casa o dalla balconata della nonna non poco, mentre le porgevo le mollette sbiadite dal sole per tenere i panni stesi. Sapevo che c’era, sapevo che era lì per me.
Riuscii a vederlo in lontananza, una volta in cui finalmente feci un giro nell’orto.
Era scosceso, ripido, bisognava conoscerlo a menadito per visitarlo e mio nonno era l’unico a saperlo fare. C’erano le sue impronte ovunque: quelle che dicevano una sosta breve, quelle sotto gli alberi da frutto, quelle lontane dove anche dopo, da ragazza, non sarei potuta andare. Immaginavo quest’ultime finire alla ferrovia; se avessi avuto coraggio e fossi stata un po’ più ribelle, sarei potuta scappare fino ai binari per poi fermarmi per riprendere fiato e sapere di aver fatto la corsa più lontana della mia infanzia. Non l’ho mai fatto, ma l’ho immaginato spesso e ogni volta la facevo franca.
L’altro alberello, invece, quello della casa al mare, stava con me solo durante l’estate. Lo controllavo a giugno, mi ci mettevo proprio accanto, per sapere se era cresciuto e quanto, e lo lasciavo a settembre. L’avrei ritrovato l’anno dopo: era una certezza. Non avevo contezza delle grandinate, delle calamità naturali; pensavo che un alberello piantato vivesse tutta la vita, che le radici fossero definitive, fondative e invece a un certo punto della mia vita ho scoperto il trasferimento: avrei incontrato persone vicine che d’un colpo sarebbero state lontane, avrei imparato a leggere tra le righe delle mail prima e dei post su Facebook poi. Ma sarebbe stato il mondo dopo. Quello di allora era un alberello che pensavo non sarebbe mai finito altrove e poi si è trasferito anche lui, in campagna, a guardare il lago, mentre io andavo via.
***
La Poinciana cresce spontanea in Argentina e Uruguay, ho scoperto qualche anno fa, mentre preparavo il nostro viaggio in Argentina. La chiamano Uccello del paradiso (da non confondere con il fiore tropicale), ma non ho sue fotografie da riguardare.
Non ho mai capito perché le diamo un nome di pianta che si pavoneggia; a Buenos Aires, nessuno batte le jacarande: alberi grandi, in mezzo alle piazze, petali sui marciapiedi, una sfumatura violacea in ogni angolo della città, senza poter dire che razza di colore sia; sembra glicine poi lilla, a volte viola chiaro. È in questo modo che esce facile la locuzione «il colore delle jacarande»: è perché non esiste, ma si conficca negli occhi.
Grazie di essere qui. Cominciamo.
Benvenutə su Novelz, la newsletter che nel 2003 sarebbe stata un blog, dove troverai l’intervista a Ilaria Leccardi, una lista di libri sullo sport femminile che ho selezionato per Il Libraio, il racconto scritto per le Ragazze nel Pallone e che ha inaugurato Singolare femminile e il primo appuntamento sportivo con Letture Metropolitane.
Dinamica
Ilaria Leccardi è la fondatrice di Capovolte, una casa editrice indipendente femminista di Alessandria.
Leggo l’intervista di Ilaria su uno dei numeri del 2020 di DWF intitolato SCATENATE. Quelle che lo sport… (ne ho parlato nel primo numero di Novelz) e durante la presentazione della rivista, Ilaria Leccardi dice una cosa che mi colpisce molto; suonava più o meno in questo modo: lo sport femminile è intersezionale per definizione.
Ho chiesto a Ilaria di rispondere a qualche mia domanda per raccontare il lavoro di Capovolte.
Mi racconti il giorno in cui ti è venuto in mente di fondare una casa editrice?
Era il 2018, avevo un paio di storie in mano da raccontare, avevo da poco cambiato vita lasciando un contratto a tempo indeterminato e il desiderio di avviare un progetto che mi rappresentasse, unendo l'esperienza di attivismo, con la Casa delle Donne di Alessandria, la mia città, ad alcune tematiche a me particolarmente care, creando nuovi spazi di racconto. Quando ho realizzato, grazie all'amica giornalista Agnese Gazzera, che avremmo potuto lavorare sulla storia di Marielle Franco, attivista e politica brasiliana uccisa nel marzo 2018 a Rio de Janeiro, ho capito che era il momento di partire.
Prima di fondare Capovolte cosa facevi?
La giornalista. E lo sono ancora. Il contratto che ho lasciato era proprio in quel ruolo, ho lavorato oltre 6 anni come redattrice esteri in un'agenzia di stampa nazionale. Poi per motivi personali, di famiglia (ho due bimbi piccoli) ma anche di scelta professionale, ho lasciato l'agenzia e mi sono costruita una strada nuova.
Sul sito della casa editrice si legge un breve manifesto:
«Capovolte è una casa editrice indipendente. Una micro realtà in movimento che racconta le donne e vuole vedere le cose da una prospettiva diversa. Appunto, Capovolte.»
La prima volta che l’ho letto ho pensato che «Capovolte» fosse un aggettivo del punto di vista. Mentre trascrivevo queste domande per inviartele mi è venuto un dubbio: «Capovolte» è il nome della casa editrice, quindi forse è un termine-ombrello. Mi racconti la sua genesi?
Capovolte è aggettivo e sostantivo, al tempo stesso. Aggettivo nel senso che indichi tu. La donna rappresentata nel nostro logo guarda effettivamente il mondo al contrario, a testa in giù. Ma è anche sostantivo, termine tecnico della ginnastica, lo sport che ho praticato fin da bambina. Una piccola rivoluzione, fisica e di prospettiva. Inoltre è un termine plurale e femminile. Diciamo che rappresenta bene il progetto che guida questa realtà.
Le collane della casa editrice sono tre: Intersezioni, Dinamica e Ribelle. Mi dici qualcosa su ognuna?
Capovolte nasce con due collane: Ribelle - fiori che rompono l'asfalto (frase mutuata da un'espressione di Marielle Franco), che ha un taglio politico sociale, e Dinamica, di sport femminile. Nel 2020, abbiamo aperto lo sguardo all'estero con Intersezioni, collana di pensiero femminista internazionale. Al momento abbiamo 7 titoli pubblicati, con 2 in uscita a breve.
In Ribelle vogliamo raccogliere storie di donne che con la propria azione politica e sociale hanno contributo a cambiare la nostra contemporaneità. L'abbiamo inaugurata con il libro Marielle, presente!, quindi a settembre 2019 abbiamo pubblicato Una vita, due vite. Corso e percorso di voci, di Cristina Contini, donna straordinaria, presidente dell'Associazione Nazionale Sentire le voci, che da anni aiuta le persone che vivono un disagio psicologico ad affrontare il trauma. Nel 2020 è uscito Io sono mia. Donne e Centri Antiviolenza, storie di rinascita, un viaggio che l'autore – Luca Martini – ha effettuato nei Centri Antiviolenza della rete D.i.Re., per raccontare l'attività di questi fondamentali luoghi, nell'incontro con le operatrici attiviste e le donne sopravvissute alla violenza. Infine, quest'anno siamo uscite con il libro Chi ha ucciso Berta Cáceres? Dighe, squadroni della morte e la battaglia di una difensora indigena per il pianeta, inchiesta densa e profonda realizzata dalla giornalista britannica Nina Lakhani sull'Honduras e Berta, altra grande figura del nostro tempo, uccisa nel 2016, le cui battaglie ci sono più vicine di quanto possiamo pensare.
Dinamica vuole aprire uno spazio di narrazione sullo sport femminile, con uno sguardo femminista. Siamo partite con la prima storia che avevo in mano, quella di Arianna Rocca, ginnasta, volontaria in Tanzania, che racconta la sua esperienza sportiva e umana. A marzo abbiamo pubblicato il secondo titolo, La strada si conquista. Donne, biciclette e rivoluzioni, di Manuela Mellini, un libro che racconta come la bicicletta sia da sempre un mezzo di autodeterminazione per le donne. A breve usciremo con un terzo titolo, un racconto poetico e illustrato sullo sport al tempo della pandemia, vissuto da una associazione dilettantistica.
Infine, Intersezioni, che ha l'obiettivo di portare in Italia autrici e pensatrici straniere ancora poco conosciute o non tradotte nel nostro Paese ma che hanno un fortissimo valore. Lo sguardo va principalmente al femminismo decoloniale, al sud del mondo, con la volontà di decentralizzare il pensiero e scardinare quelle gararchie che nel nostro mondo euro-centrico ci sembrano così scontate. Il primo volume che abbiamo pubblicato è Il luogo della parola, di Djamila Ribeiro, filosofa brasiliana, tra le principali esponenti a livello internazionale del femminismo nero decoloniale, tradotta da Monica Paes.
Come scegli i progetti editoriali?
Arrivano molte proposte, le valuto. Chiediamo a chi ci scrive di essere coerente con la nostra linea editoriale. E soprattutto mi guardo attorno, soprattutto all'estero. Sto cercando di costruire un percorso congruente che permetta a Capovolte di avere un'identità chiara. A volte abbiamo tempi un po' lunghi nelle risposte, ma chiediamo a chi ci avanza delle proposte di avere pazienza.
Dinamica è la collana di sport femminile: a cosa deve il nome? E perché dedicare una collana intera allo sport femminile?
Quando ho immaginato di dar vita a Capovolte, volevo che fosse una casa editrice fondamentalmente dinamica e ribelle. Il nome semplicemente deriva da questo. Lo sport è un ambito chiave della nostra società, un luogo di socializzazione, di crescita, di confronto di contaminazione. Tuttavia è ancora oggi è uno dei luoghi sociali dove maggiormente si avverte il divario di genere nel trattamento riservato a uomini e donne, sia in termini di attenzione mediatica, sia per quel che riguarda la pratica sportiva stessa, l'accesso allo sport, i montepremi, i ruoli dirigenziali. E quindi ho pensato prima di tutto alle bambine, a quelle piccole sportive che praticano sport nelle palestre, nei campi, e per cui vorrei che il domani fosse vissuto in maniera paritaria. Quello che potevamo, dal nostro punto di vista, fare era creare uno spazio narrativo per raccontare lo sport delle donne, fatto dalle donne e anche - perché no - scritto dalle donne. Lo sport è un ambito che può sembrare curioso in una prospettiva femminista ma che in realtà, un po' il mio passato da praticante e da giornalista che si occupa del tema, era per me fondamentale che ci fosse.
Quali sono i prossimi progetti della casa editrice?
Abbiamo in uscita per Dinamica un libro sullo sport al tempo del Covid. Un racconto delicato per parole e immagini che ripercorre come una piccola associazione dilettantistica è sopravvissuta alla pandemia mantenendo legami e creando percorsi nuovi. Per Intersezioni abbiamo invece in uscita a giugno il secondo libro della collana, un libro straordinario di Grada Kilomba, Memorie della piantagione. Episodi di razzismo quotidiano e a ottobre torneremo in Brasile, con un libro di Carla Akotirene.
E poi, per non parlare solo dei titoli in uscita, vogliamo tornare tra le persone. Obiettivo di Capovolte è contaminare gli ambiti, portare i libri in contesti non convenzionali, come per esempio le palestre, oppure parlare di sport in ambiti più classicamente femministi. Rendere le letture teoriche accessibili e fruibili anche a chi non ha una formazione in questo ambito.
Scrivo cose
Su ilLibraio.it ho raccolto un percorso di lettura a tema sport femminile, il pezzo si intitola I libri sullo sport femminile non raccontano mai un’unica storia.
Mi sono fermata a pensare. La reazione, la prima, è sempre la stessa da qualche anno: mi chiedo se l’aggettivo sia necessario. Di solito lascio quello che sto facendo, mi distraggo superficialmente con la tastiera del computer o con una voce che arriva da altrove e poi faccio un passo indietro.
Il messaggio recitava: “una lista di libri di sport femminile pubblicati negli ultimi anni”. È una richiesta chiara, non ha mai bisogno di puntualizzazioni, ma l’aggettivo, messo nero su bianco, mi mette in ambasce, perché mi domando sempre se è necessario.
Si chiama Singolare femminile, è una rubrica ospitata sul blog di Ragazze nel pallone e racconterà due tenniste al mese.
Si comincia con Virginia Wade, stile da vendere (qui sotto in una posa a Wimbledon).
«Essere brava non è abbastanza»: quando lo capisce, Wade cambia la sua carriera. Prima, giocava con un approccio istintivo, dopo comincia a capire come si vince, solo per poterlo rifare di nuovo e a convincersi che la tecnica serve, se non altro per far ricredere gli altri e per vincere Wimbledon almeno una volta.
Vedo gente (online)
Da ieri 1 aprile e per altri due giovedì alle 14 sarò in diretta su Instagram con Letture metropolitane, per raccontare la letteratura sportiva.
Oggi abbiamo parlato di biografie, scegliendo quattro libri esemplari per raccontarle:
una biografia-mondo:Un giorno triste così felice di Lorenzo Iervolino (66thand2nd);
una biografia più classica:Tutta la forza che ho di Miriam Sylla con Maurizio Colantoni (Rai Libri);
una raccolta di dieci storie tematiche: La caduta dei campioni, a cura di Ultimo Uomo (Einaudi);
un memoir: Tardi sulla palla di Gerald Marzorati (Add editore con la traduzione italiana di Paolo Falcone).
Per questo numero è tutto.
A presto!
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