Poco più di un mese fa ho compiuto 40 anni. Dato che sono molto attaccata agli anniversari − il tempo che passa, i passi che calpesto, il calco che lascio − il compleanno dei 40 era un progetto nato 10 anni fa, più o meno mentre archiviavo la festa dei 30: stavo impacchettando la crema fritta della merenda al parco Trenno di Milano che avremmo mangiato da soli Simone e io nei giorni a venire.
C’è una foto di quel giorno che conservo su un ripiano della libreria; ogni tanto l’ho guardata e mi sono ricordata di ciò che avevo in animo di realizzare e proprio perché non avrei mai voluto disattendere le aspettative, mi ero data dieci anni per riuscirci. Cosa sarebbe mai potuto andare storto? Dieci anni sono un tempo infinito, no?
Una sola di quelle cose è accaduta.
(Questa foto è datata 24 settembre 2012, ero in Piazza del Campo a Siena, in ferie, tra una data e l’altra dei Radiohead.)
La lista, dicevo, la riporto qui sotto, per liberarmene definitivamente:
andare in Argentina (questa è la cosa che si è realizzata, ma quando l’ho pensato sapevo che sarebbe potuto accadere);
scrivere 3 libri (finiti e riusciti, si intende);
fare un lavoro che abbia a che fare con l’audiovisivo (no, niente: l’editoria mi ha vinto);
vedere una partita di ogni Slam di tennis;
studiare (nel senso di riprendere le cose da dove le avevo lasciate all’Università e aggiornarle).
Quest’anno agosto è stato un mese strano. Mentre io compivo i 40 (settimana più settimana meno e con qualche dilatazione), due icone dello sport ci hanno salutato, come due binari paralleli che si sono alla fine incontrati, sfidando le leggi della geometria.
«Agosto è il mese più freddo dell’anno» è sempre una condizione dell’anima
C’è una persona sul Pianeta che non sa che Serena Williams e Roger Federer si sono ritirati dal tennis giocato?
Infatti.
È accaduto in due modi differenti. Prima è toccato a Serena, che ha annunciato una competizione speciale per lasciare − lo Us Open − consapevole che sarebbe potuto accadere anche al primo turno contro una qualificata qualunque. (Mi scuseranno le qualificate a tutti gli Slam, «la qualificata qualunque», in questo caso, è molto relativa.)
Poi è toccato a Roger che invece ha scelto la Laver Cup, una competizione a invito a squadre (Europa contro Resto del Mondo) che si gioca come torneo su più giorni a Londra e che fino a due settimane fa veniva rubricata da moltissimi, anche nel segreto delle proprie camerette, come una sorta di Giochi Senza Frontiere molto cool.
New York, all’inizio
Lo Us Open è stato il primo Slam vinto da Serena Williams, nel 1999: 6–3, 7–6 a Martina Hingis. Treccine con le perline di plastica, quasi 18 anni di età, e un atteggiamento infantile, che in pochi ricordano.
Prima che diventasse l’icona che ha lasciato l’eredità più totalizzante del tennis femminile, Serena è stata un pesce fuori d’acqua, una tennista grezza e impura. Una atleta potente con poche idee in testa, una che non solo era meno dotata dell’elegante sorella, ma sarebbe dovuta durare il giusto.
Dovere e giustizia.
Prima che fosse lei stessa ad affermare uno standard nuovo − se fosse più o meno accattivante non era un suo problema − Serena è stata l’anti molte cose: l’anti grazia, l’anti eleganza, l’anti gesto bianco, l’anti quello che fino a quel momento era stato, invece, tutto.
Martina Hingis era l’erede del mondo tradizionale, bianco, e Serena Williams no, semplicemente. La contrapposizione era talmente palese e facile da essere vera: l’una non sopportava l’altra e viceversa. L’una pungolava continuamente l’altra e l’altra gioca la prima finale della vita, contro le aspettative di molti − sarebbe arrivata prima Venus − e contro le aspettative di Richard Williams − che avrebbe voluto le sorelle contendersi il primo Slam.
Martina, numero 1 del mondo in quel momento, non era così sicura di vincere. Lo era all’inizio, sulla carta, quando il mito di Serena Williams doveva ancora iniziare, ma mentre accadevano le partite, mentre Serena dimostrava di essere capace di molte più cose di quelle che il mondo aveva previsto per lei, Martina vacillava. Sono sempre le avversarie a capire quando qualcuna è più forte. È sempre il campo che lo sancisce, prima di ogni altra cosa.
Poche settimane prima, Serena aveva vinto anche un altro torneo che ha fatto sempre poca storia, perché il 1999 è stato appunto l’anno del primo Slam, ma se esiste un primo giorno di scuola per l’atleta, quello è stato il suo: Serena vince la Evert Cup a marzo, quel torneo che oggi è Indian Wells Masters, contro Steffi Graf in tre set 6–3, 3–6, 7–5 - quel torneo che le darà molti dolori a un certo punto.
Mentre scrivevo il libro su Steffi Graf, per caso su Supertennis hanno riproposto questa partita: era il momento del primo lockdown, non c’erano tornei, in quelle settimane si poteva riguardare vere e proprie perle storiche. Non avevo mai rivisto per intero quel match, mentre lo rivivevo mi sembrava di ricordare delle cose, dei punti, dei movimenti - ma non so se è vero: è possibile? Avevo quasi 17 anni, quante partite ho visto da allora?
Mi sembrava però di avere in testa, da qualche parte seppellita, la vittoria di Serena su Steffi con delle caratteristiche ben precise, che non avevano il sapore della rivincita, né della sovra-affermazione, come è accaduto poi allo Us Open qualche settimana dopo; aveva il sapore di altro.
È stata una vittoria esplicita, ma più misurata. Serena ha parlato in modo più dimesso, ha chiamato Steffi Graf «Signora Graf» dopo la vittoria, si è messa fin da subito a contatto e confronto con la storia, con i record, con un posto ben preciso - nessuno sapeva ancora che Steffi Graf si sarebbe ritirata prima che Serena vincesse lo Us Open, ma era chiaro che la tennista tedesca stava vivendo l’ultima parte della sua carriera.
A differenza della dialettica con Martina Hingis, quella con Steffi Graf è stata molto più rispettosa. È stato un po’ come dire: «Io non mi relaziono con chi è al massimo come me, io guardo a chi è stato migliore di me.»
Questo sapere sempre dove arrivare, qual è l’obiettivo ultimo, è stato un atto di prepotenza che a Serena non è stato spesso perdonato. Messi a segno i risultati che ha ottenuto durante la sua carriera, il fatto di essersi messa spesso al pari delle grandi, al cospetto delle grandi, le ha dato uno status di superiorità che molte tenniste giovani hanno riconosciuto, che molte colleghe hanno rispettato, ma che in molti altri - tra spettatori, fan, commentatori, colleghe e detrattori - hanno spesso usato per rimarcare errori, debolezze e uscite infelici.
Se non fosse arrivata Steffi Graf prima, di certo Serena Williams sarebbe stata la mia prima grande tennista preferita. È arrivata seconda, perché abbiamo la stessa età, praticamente, perché guardare lei per 20 anni è stato tifare sempre per qualcuna che avrei compreso fino in fondo, senza accondiscendenza né tantomeno desiderio di giustificazione; con una punta di umana e profonda comprensione, la migliore che potevo permettermi.
Entrambi, nel mezzo
Serena Williams e Roger Federer sono arrivati quasi insieme nella mia vita di tifosa: non giocavo mai a tennis ma lo guardavo moltissimo ed erano talmente diversi l’uno dall’altro da accontentare tutte le mie mancanze.
La sfacciataggine e il bel gioco, la cocciutaggine e la riservatezza. L’improvvisazione e la risolutezza. Entrambi erano però giovani, nel loro stile e nelle loro intenzioni, e questo mi ha permesso di stare dalla loro parte fin da subito, in un modo alternativo ma ugualmente pieno di trasporto. Emotivo, certo.
Le parole che hanno usato per andarsene sono state l’unico ponte di tutto questo processo. Entrambi hanno fatto un discorso post gara, entrambi hanno giocato sapendo di poter perdere. Entrambi si sono rivolti commossi alla famiglia e nello specifico a due donne: una compagna e una sorella, che hanno giocato un ruolo differente: di supporto Mirka, di antagonismo Venus.
Roger Federer ha detto di aver potuto contare di qualcuna che non ha mai chiesto una tregua, mentre Venus Williams, a un certo punto, l’ha concessa. La storia di Mirka e Roger è stata ai lati, ha fatto da cornice, mentre quella di Serena e Venus è stata alla portata di tutti, sotto gli occhi del tennis per anni. Tutti e quattro hanno formato delle coppie, e abbiamo compreso che tanto il ruolo d’ombra quanto quello più sotto i riflettori contano.
La storia di Roger Federer è stata una storia totale, mentre quella di Serena Williams è stata molto partigiana; nella loro condizione di esempio e di leggende, non sono la stessa cosa: Serena è andata via non volendo fino in fondo, le lacrime sono state di dispiacere e di commozione, mentre quelle di Roger prettamente di commozione. Per lei molto della sua carriera non è stato scontato, e se ne va anche per dare una famiglia vera a sua figlia, mentre per lui il compimento è pieno, è soddisfacente.
Londra, alla fine
Fino a 10 anni fa circa, Roger Federer è stato un affare personale, per me. Il motivo per cui ho iniziato a interessarmi alla produzione saggistica di David Foster Wallace è stato perché ha scritto di Roger Federer, e non viceversa, e il motivo per cui Federer è stato il prescelto ha a che fare con un episodio che custodisco come uno dei fatti più importanti della mia vita.
Roger Federer ha a che vedere con l’esame di maturità. Il rovescio e la meraviglia sono arrivati dopo, molto dopo. Ma la prima volta che ricordo una partita completa di Roger Federer è stato quando ha battuto Pete Sampras a Wimbledon, era il 2 luglio 2001 e ne avevo scritto in parte qui e qui.
Da dieci anni a questa parte è diventato un affare almeno per due. Credo che Roger Federer sia una delle prima cose di cui Simone e io ci siamo parlati. Devo avergli chiesto una cosa tipo: «Federer o Nadal?» perché mi è sempre sembrata una cosa importante da chiedere. Federer, a differenza di Serena, è un affare di tutti, che pone delle demarcazioni all’interno di un certo livello di conoscenza del tennis.
A Londra, qualche giorno fa, davanti alla televisione abbiamo pianto tutti. Simone e io abbiamo guardato lo spettacolo sul divano, stanchissimi dalla settimana e io personalmente dal lavoro, ma siamo andati a letto dicendo: «È finito.»
Cosa, nello specifico?
Vederlo salutare è stato tragico: Roger Federer potrebbe essere stato il campione di tennis migliore che hai visto oppure l’altro capo di un legame emozionale. Ancora, hai sofferto tanto quanto hai gioito - dopo gli addii il computo è sempre pari. Avevamo capito che sarebbe arrivato il momento l’anno scorso a Wimbledon ed è più o meno un anno che ci pensiamo, a fasi alterne, a ogni dichiarazione rilasciata, a ogni domanda più o meno diretta. Abbiamo avuto un anno per abituarci all’idea che le cose sarebbe terminate.
Quel pianto ha riguardato lui e noi e il nostro rapporto di fan-spettatori, ma ha a che fare molto di più con l’irragionevolezza delle cose che finiscono, dell’età che finisce, di un ciclo che muore e non tornerà mai più: non è che non avremo mai un’altra passione, semplicemente non avremo mai più un’altra passione così forte. Forse perché è stata la prima, forse perché è stata l’unica, forse perché è stata totalizzante.
Mentre Roger Federer si alzava dalla panchina dopo aver perso l’ultima partita della sua carriera in doppio assieme a Rafa Nadal, aveva la sua solita andatura, quella che abbiamo conosciuto negli ultimi anni, quella che ci ricorderemo per sempre. Il passo corretto, né lento né veloce, a favore di telecamera, adatto a ogni dispositivo in grado di registrarne la sicurezza e la precisione. (Mi è venuto in mente di quando era giovane e appena uscito dai successi juniores aveva un atletismo povero e in generale era quasi goffo.)
Nessuno avrebbe voluto essere Rafa Nadal su quel campo eppure tutti lo siamo stati e in quella sequenza di fotografie che passeranno alla storia dello sport, che vi piaccia il tennis oppure no, c’è la poca rassegnazione di uno, che guarda l’altro e realizza che il momento lo riguarda e la rassegnazione sarà un processo lungo. È Federer che prende la mano a Nadal dopo che lo ha sentito singhiozzare troppo forte e aveva bisogno di dirgli un grazie in segreto. Lo abbiamo visto tutti e gliene saremo per sempre grati.
C’è stata l’immedesimazione, l’identificazione e non ci resta che aspettare la catarsi.
Le cose da leggere
Su Roger Federer e Serena Williams si è scritto moltissimo in queste settimane.
Le mie cose preferite le metto qui sotto.
Fabio Severo, su Roger Federer, sia su l’Ultimo Uomo, sia su Il Tascabile
Aggrappàti a Federer - se vuoi leggere meno di tennis
Per questo venerdì sera ho voluto guardare l’addio al tennis di Federer, quest’addio così coreografato, lucidato e illuminato e al tempo stesso così gonfio di lacrime. Sentivo la necessità del rito del commiato, per raccontare a mia sorella, mia madre e mio padre come se n’era andato Federer, cosa aveva detto, ridere dei momenti grotteschi, delle cadute di stile, ricordare le cose belle.
Che tennis lascia Roger Federer - se vuoi leggere più di tennis
«La sua carriera ha avuto una durata che gli ha permesso di sperimentare un prima e un dopo, un cambiamento drastico di interpretazione del gioco che ha fatto sì che all’inizio della carriera un giocatore come Federer sull’erba andasse a rete sulla prima e sulla seconda di servizio. E proprio del serve and volley Federer parla subito dopo, nella stessa risposta: “Non penso lo vedremo più, perché non credo che questi giocatori siano disposti a mettere a rischio il proprio corpo per sprintare due-tre passi dietro una prima di servizio che finisce fuori e poi tornare indietro alla linea di fondocampo, per niente. È più semplice rimanere dietro quando si serve”.
Gerald Marzorati su Serena Williams
Su The New Yorker che però non è a libera lettura, il pezzo si intitola The Moments From Serena Williams Career That I’ll Never Forget e puoi leggere il pezzo se hai una sottoscrizione al New Yorker oppure non hai terminato gli articoli gratuiti disponibili, altrimenti ti lascio uno stralcio:
But it wasn’t just the big wins that were memorable, as plentiful as they were. There was an aura about Serena in Flushing, especially when she played the evening sessions, as she usually did. She owned the nights. Her fashion-forward self-presentation, her physical expressiveness that could intimidate opponents and rouse the crowd—under the lights in Arthur Ashe Stadium, the court became her stage. Oddly, perhaps, it’s her losses in several finals that I recall most readily and vividly. I bet I’m not alone. As dominant a player as she was—the most dominant the sport has seen—her struggles were also numerous, and absorbing, and, sometimes, spectacular enough to become indelible.
Le cose da vedere
Su Serena c’è l’imbarazzo della scelta: film, documentari. Su Roger Federer meno. Ne scelgo uno per uno.
Roger Federer: King of the Court è disponibile gratuitamente su YouTube, pubblicato dall’account dello Us Open Championship. È un tributo, niente di enorme, ma se vi spostate dall’azione a guardare solo Roger Federer che fa cose - ascolta, gioca, parla - riuscite ad avere una esperienza interessante: cogliere i cambiamenti umani oltre che tennistici.
Being Serena, invece, è il documentario prodotto e trasmesso da HBO. Racconta un momento particolare della vita di Serena Williams: la gravidanza e il tennis. È l’ultimo realizzato, quindi il più aggiornato.
Un podcast, un documentario e un libro
Ancora su Ted Lasso
Quest’estate c’è mancato pochissimo che andassi a Richmond solo per andare a sedermi al bancone del bar di Ted Lasso. Ho scoperto però questo podcast per chi come me non ne ha mai abbastanza: Football Is Life in cui tutta la redazione di The Incomparable non resiste un minuto e si mette a raccontare in dettagli ogni episodio della serie TV Ted Lasso. Se ti ha appassionato lo show oppure se hai il tuo episodio preferito troverai l’episodio che fa per te.
Agosto è stato anche il mese di Elsa Morante
La RAI le ha dedicato uno speciale de La Grande Storia. Lo trovi su RaiPlay: basta registrarsi per vederlo (credo gratuitamente).
C’era una volta l’Argentina
Gianni Montieri ha raccontato questo libro di Andrés Neuman su Doppiozero e mi è venuta voglia di rileggerlo.
Neuman organizza un abile gioco narrativo mischiando il ricordo personale, la vera memoria vivida, e il racconto tramandato dal racconto di una nonna, di una madre, o quello ancora che arriva da una suggestione, come una notizia familiare passata di bocca in bocca: a quel tempo stava accadendo questo nel paese, è certo, qualcuno spariva e non tornava, qualcuna – anche di molto vicino, qualcuna del nucleo familiare, Silvia, – veniva portata via, poi faceva ritorno, i segni delle torture, delle sofferenze dov’erano?
Vedo gente
Una settimana intesa, diciamo.
È uscito Rivali, la raccolta a cura di l’Ultimo Uomo pubblicata da Einaudi. Dentro c’è un mio racconto che si intitola «Gioca, prega, ama»: parla di tennis femminile e di Billie Jean King e Margaret Smith Court, di Battaglia dei Sessi, di educazione religiosa e di Wimbledon e, infine, di muri nel senso proprio di stadi e costruzioni, che hanno fatto parte dell’eredità di queste due tenniste.
Una ha vinto sul campo, una si è presa la memoria: vieni a scoprire chi ha fatto cosa martedì 4 ottobre alle ore 18.30 alla Feltrinelli di Piazza Piemonte a Milano lo presento assieme a Marco D’Ottavi e Dario Vismara, alla moderazione di Michele Dalai. Se ci sei, ci vediamo là.
E poi domenica 9 alle ore 12 a Firenze ci siamo Alfredo Giacobbe e io a raccontare Rivali al Firenze Books all’Ippodromo del Visarno, Piazzale delle Cascine.
Invece, se vuoi sentire parlare solo di anni Ottanta e dei primi Novanta, il 7 ottobre alle ore 18.30 alla libreria Alaska di Milano, Jolanda Di Virgilio e io parliamo di tennis, libri, scrittura: insomma raccontiamo Steffi Graf. Se non mi hai mai sentito parlare di Steffi Graf, vieni perché − pare che − mi si illuminano gli occhi, la libreria Alaska è fenomenale e accanto c’è la vineria Fiasco. Siamo ad Affori. Se mi hai sentito parlare di Steffi Graf ma non lo hai ancora letto, magari ti viene voglia. Se non ti interessa il tennis, potrebbe venirti voglia di giocarci. Se hai comprato una racchetta da padel, parliamone.
Un’ultima cosa: dal numero scorso, Novelz è anche su MINDIT, nella categoria sport. Se sei iscritt* da Substack non cambia niente, ti arriverà comunque in mail; è solo un modo in più per leggerla.
Per questo numero è tutto!
Se sei qui per la prima volta
Novelz sta per «Novel» più una «z» difettosa: è come dire romanzo, storie, ma con un errore alla fine e quindi darsi delle arie, ma sul più bello pentirsene.
La newsletter
Novelz è iniziata a gennaio 2021. Ci troverai sempre delle storie: le mie, quelle che leggo, quelle che guardo, quelle di sport e quelle deglə altrə che mi piacciono molto.
La (breve) bio della titolare
Vivo a Milano dal 2007, con Simone dal 2012, con Paolo dal 2016 e vicino alla Martesana con molte piante dal 2020. Collaboro con «L’Ultimo Uomo», «ilLibraio.it» e «Zarina» e mi trovi principalmente qui e su Instagram. Ho scritto due libri, l’ultimo si intitola Steffi Graf, lo ha pubblicato 66thand2nd e racconta la carriera in singolare della prima grande tennista a cui mi sono appassionata. Sono una delle due voci di Goleadora, un podcast sul calcio femminile e 1/10 di Rivali, la raccolta a cura di Ultimo Uomo pubblicata da Einaudi.