Nell'agosto 1990 i miei genitori e io andiamo in treno in Cecoslovacchia, Ungheria e Austria. Una mia qualità di bambina è andare in giro ovunque senza fare problemi di cibo né tantomeno dare segni di stanchezza. Cammino come gli adulti fumatori incalliti, e da un certo punto di vista mi dispiace molto non avere video ossessivi che mi ritraggono perché vorrei vedermi: le facce, la stanchezza − davvero non c'è?
Invece, mi accontento di come li ricordo o di come, da grande, li annoto ricordandoli, convinta che prima o poi li avrei dimenticati.
Una delle camminate più ardue della mia infanzia è all’interno di questo viaggio: è la camminata esemplare, quella che mia madre cita, per esempio, per rammentarsi lei stessa di quanto io sia predisposta ai chilometri. Dobbiamo andare a visitare la Fortezza dello Spielberg di Brno e per arrivarci bisogna cimentarsi in una salita abbastanza ripida.
Arrivo in cima, baldanzosa, lasciando indietro gli adulti, per trovare, però, il castello chiuso per qualche ristrutturazione che nessuno ha previsto: ricordo di aver fatto l’ultima curva in salita. Li lascio minuti interi affranti per la fatica fatta, mentre io mi lamento solo di non poter guardare ciò che mi è stato promesso: un parco, le prigioni, un’aspettativa enorme di scoprire qualcosa che ha suoni sinistri, una storia cupa ma al contempo molto affascinante.
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Prima di Brno, l’itinerario prevede Praga. I miei ricordi di bambina di otto anni sono offuscati. Conservo più che altro flash e dettagli. Ho memoria di un pezzo di Ponte Carlo, sempre lo stesso, percorso in lungo e in largo per sentire i musicistə suonare in strada: maestrə d'orchestra che non avevano lavorato per decenni. Virtuosə che incantano folle. Guardo l'intensità della riscoperta, i volti di persone che ridono e piangono allo stesso modo e nel medesimo momento.
Non so il motivo, lo chiedo e mi viene spiegato, ma non comprendo fino in fondo perché troppo a lungo non hanno fatto ciò per cui sono statə apprezzatə. Questo ricordo mi si è ficcato talmente in testa che gli associo sempre un sentimento e una percezione di ritrovata felicità collettiva. Non so in quale angolo di Praga è stata scattata la fotografia seguente, ma rimane per me la foto-simbolo di quel momento.
Mi torna in mente per due ragioni: la prima è che sarei dovuta tornare a Praga dopo vent’anni a Pasqua dell’anno scorso e a febbraio, quindi un anno fa circa, pianificavo dove stare e acquistavo il volo aereo.
La seconda è che nel mini itinerario che avevamo iniziato a fare la mia amica Francesca e io, e che ritrovo mentre cerco altro, ci siamo imbattute, situate in diversi punti della città, nelle opere di uno scultore ceco: le abbiamo guardate in quel momento con una certa curiosità. L’artista si chiama David Černý e spesso i suoi lavori sono stati valutati controversi.
Un’istallazione del 2013, ad esempio, si chiama Embrione (Embryo), è fatta di metallo, schiuma e luci LED e sta avvinghiata a un muro. E poi ci sono i due ragazzi che urinano uno di fronte all’altro dentro i confini della Repubblica Ceca: hanno dei movimenti realistici e un visitatore può interromperli inviando un SMS a un numero specifico; poi il testo del messaggio comparirà nell’acqua.
Boredpanda mette insieme 10 lavori di David Černý, se volessi farti un’idea.
Grazie di essere qui. Cominciamo.
Benvenutə su Novelz, la newsletter che nel 2003 sarebbe stata un blog, dove ti racconto Althea Gibson e un libro che la riguarda (l’avevo promesso), due storie scritte da altrə e dove trovi Letto di venerdì, la rubrica dei libri di Novelz su Instagram (se l’hai persa) e le ultime uscite di Steffi Graf.
Le donne di Althea Gibson
Prima di Arthur Ashe, c’è stata Althea Gibson.
È stata la prima tennista afroamericana a conquistare uno Slam: era il Roland Garros ed era il 1956, per poi imporsi anche a Wimbledon e allo US Nationals (non era ancora lo Us Open) l’anno dopo, quando è stata nominata atleta dell’anno da Associated Press.
Le principali notizie su di lei che devi sapere sono:
è nata il 25 agosto, come me. Lei però nel 1927, a Silver, Carolina del Sud;
ha gareggiato negli anni Cinquanta, quindi nell’Era pre-Open;
ha vinto 5 Slam in singolare, altrettanti in doppio e 1 in doppio misto;
è stata numero 1 della classifica mondiale nel 1957;
era una tennista molto potente, con un servizio invidiabile (era molto alta per la media dell’epoca) e una leggerezza a rete difficile da gestire;
è entrata nell’International Hall of Fame del Tennis nel 1971.
La carriera tennistica di Althea Gibson inizia ad Harlem, New York City. Non è solo una tennista, ma pratica anche il golf, e questa è la prima «stranezza» della sua vita di atleta: Gibson sceglie due sport d’élite, di appannaggio bianco, in cui infilarsi con costanza, con molta determinazione e tanta benedetta sfacciataggine.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta, infatti, il tennis e il golf sono due sport in cui la minoranza afroamericana, quando porta esponenti vincenti e fa finta di non ascoltare il razzismo latente, riesce a far parlare di sé, ma secondo un unico vocabolario possibile: gli atletə afroamericanə devono essere più miti, più ligi, mai rissosi, e non hanno il lusso di obiettare. Devono solo vincere, per poi avere la possibilità di restare. L’accettazione e la tolleranza, quando ci sono, nascono e finiscono dentro un campo (da tennis, da golf, da baseball non importa), sul terreno in cui si dimostrano i migliori.
Nel 1950 aglə afroamericanə non è permesso di partecipare ai tornei di tennis più importanti: nonostante sia già un talento acclarato e ogni torneo avrebbe dovuto invitarla, Althea Gibson non partecipa al primo United States National Championships (ora Us Open), nonostante non sia vietato espressamente dall’USTA (United States Tennis Association) che, anzi, proibisce le discriminazioni etniche o razziali. Il problema è che in quegli anni i club di tennis che ospitano i tornei, anche i più importanti, sono dedicati solo ai bianchi e quindi, formalmente, Althea Gibson non può nemmeno entrare.
Angela
Nel primo numero di Novelz ti avevo promesso il racconto di un libro sul tennis: è The Match, scritto da Bruce Schoenfeld per HarperCollins. In italiano, mi dispiace, non esiste.
Althea Gibson insieme a Angela Buxton vince nel 1956 il doppio a Wimbledon (nello stesso anno anche il Roland Garros) in due set contro le australiane Fay Muller e Daphne Seeney. Il libro di Bruce Schoenfeld racconta la finale del torneo e il sodalizio, nato dall’unione di due outsider del tennis, in nome di un solo obiettivo: essere ricordate.
«Il perdente è sempre parte del problema; il vincitore è sempre parte della risposta. Il perdente ha sempre una scusante; il vincitore ha sempre un programma. Il perdente dice che potrebbe essere possibile, ma è difficile; il vincitore dice che potrebbe essere difficile, ma è possibile.»
(Althea Gibson)
Provenienti da contesti opposti (Gibson da una povera famiglia nera di Harlem, Buxton da una benestante famiglia ebrea di Londra), le due si conoscono a metà degli anni Cinquanta quando si ritrovano ognuna senza una compagna di doppio e decidono di giocare assieme prima e diventare amiche per la vita poi.
Brian Schoenfeld registra non solo le personalità individuali di Gibson e Buxton, ma anche lo spirito del tempo in cui giocano; le mette insieme non solo sul campo da tennis, ma anche nel loro ruolo pionieristico: mentre Althea Gibson combatte contro il razzismo, il sessismo e le preoccupazioni finanziarie, Angela Buxton è snobbata dai circoli del tennis inglesi a causa della sua religione. Il merito di questo racconto è il fatto che traccia una linea di congiunzione tra due protagoniste mai abbastanza ricordate, che scelgono di fare un pezzo di strada insieme anche perché insieme possono fare la differenza.
Il libro si concentra sull'edizione del torneo di Wimbledon del 1956 e spesso non rende le cose facili alla figura di Althea Gibson, quella fra le due che viene più a lungo tratteggiata nel libro. L’occhio di Schoenfeld mette in luce ad esempio l’ossessione della povertà di Gibson che non riesce a vivere col tennis, la vita da «signora bene» di Buxton, anche questa come se fosse quasi una colpa, ma vale la pena per il racconto tennistico dei contesti lontanissimi dalle possibilità di oggi e che restituiscono a quelle atlete una forza a priori che pulsa per il solo fatto di esserci e di aver fatto la storia, nonostante il mondo.
Come avrai capito, non tutte le parti di questo libro mi trovano d’accordo, almeno nell’esposizione, ma al di là dell’intenzione dell’autore è interessante come tassello per ricostruire la figura di Althea Gibson, catalizzatrice di svolte sociali, di interesse collettivo, oltre che sportivo.
Alice
Althea Gibson non può essere brava da sola, quindi: negli anni Cinquanta c’è bisogno di alleati, di essere numerosi, di unirsi attorno a un’idea. La battaglia per permettere ad Althea di giocare a tennis ovunque si ritenga opportuno raggiunge la prima svolta il 1 luglio 1950, quando Alice Marble, ex tennista bianchissima che aveva vinto diversi Slam e fu numero 1 del mondo dal 1936 al 1940, pubblicamente si schiera dalla parte di Althea Gibson, denunciando le pratiche di segregazione razziale della U.S. Lawn Tennis Association e sfidando in questo modo l'intero movimento tennistico statunitense.
Forte della considerazione nell’ambiente, scrive un editoriale per American Tennis Magazine:
«Se il tennis è un gioco per signore e signori, è tempo che agiamo in modo più decoroso e meno bigotto e ipocrita. Se Althea Gibson rappresenta una sfida per le attuali tenniste, è giusto che si incontrino e si sfidino sui campi.»
Grazie a questa pressione forte sull’opinione pubblica, sull’immagine del tennis statunitense, Althea Gibson partecipa all’edizione del 1950: è il 25 agosto, ha 23 anni precisi e diventa qualcuno, come desiderava sin da piccola.
(Elisabeth e) Darlene
L’aura di attesa attorno ad Althea Gibson (e ad altri atleti come Jackie Robinson nel baseball, ad esempio) ha a che fare con una questione sociale: il solo fatto di mettere piede in un campo da tennis o da golf, o nello sport più popolare d’America, e di vincere in modo completo, convincente, definitivo è un’affermazione identitaria. Non sarebbero mai stati riconosciuti come figli d’America, mai al pari di atleti altrettanto vincenti ma bianchi, però l’attenzione degli spettatori è costretta a fare un passo avanti, se non altro a fare i conti con la loro esistenza.
Ogni afroamericanə è quel signore impettito e felice, dietro la rete, che guarda soddisfatto.
Ogni volta che Althea Gibson alza un trofeo al cielo o riceve un elogio come quello di questa fotografia, unə afromaericanə è rappresentatə agli occhi del mondo, immortalatə in un momento che avrebbe rivisto negli anni a venire, in cui si sarebbe riconosciutə o si sarebbe vistə, finalmente.
Nella fotografia con la Regina c’è anche Darlene Hard, californiana di Montebello, compagna di doppio di Althea Gibson dopo Angela Buxton (nel 1957 a Wimbledon vincono il titolo insieme). Darlene è anche quella della foto qui sopra, invece, tutta cuori e allori per la sua compagna-avversaria: ha appena perso contro di lei la finale di singolare a Wimbledon. È sempre il 1957.
Darlene e Althea sono una californiana d’America e un’afroamericana tollerata in America, una coppia che definisce cosa significa giocare nella stessa squadra e cosa può succedere quando un’intenzione sul campo costruisce un’idea sociale. Come Alice Marble, anche Darlene Hard fa la sua parte: non ha il peso dell’ex campionessa, ma ha una posizione di privilegio che mette a servizio della rivale-amica-partner.
Alleate di Althea Gibson sono Alice Marble o Darlene Hard, che perde il titolo a Wimbledon ma le rimane accanto di fronte alla regina Elisabetta, o che perde e le tiene la mano con rispetto mentre la bacia con affetto davanti a tutto il mondo: gesti e azioni che dimostrano una vicinanza sportiva, partecipe e fattiva.
Scritto da altrə
A proposito: di Kim Novak e dell’attrito digitale
Sorry for the mess
Nello studio di casa nuova, dove lavoriamo e io passo anche parte del mio week end e delle mie mattine, c’è anche un poster di Vertigo di Alfred Hitchcock: una stampa di Claudia Varosio che ha realizzato la sua versione. Ha una cornice nera, è appeso in verticale al di sopra di un mobile alto. È uno dei miei film preferiti.
In questa intervista, Kim Novak racconta a Simon Hattenstone del Guardian della sua vita di attrice, ma soprattutto − ed è la cosa che colpisce maggiormente − come gestisce la sua bipolarità con la pittura.
Kim Novak è forse una delle attrici più enigmatiche e meno raccontate della storia del cinema, nonostante abbia preso parte a film entrati nella storia (non solo Vertigo, ma anche: Baciami, stupido o Una strega in paradiso).
Questa intervista la racconta con calore: è il tepore nelle mani di una tazza di tè caldo.
La comodità digitale
Uno dei primi concetti imparati all’Università con il corso di Informatica generale è stato quello di «user experience». Era il 2001, non bisognava far fare fatica agli utenti. Le interfacce web dovevano essere lisce, senza intoppi, sempre con una via d’uscita: tutto ruotava attorno alla facilità d’uso.
Flavio Pintarelli in un articolo per il quotidiano Domani ha scritto dell’assenza di attrito, cioè della mancanza di attesa e di stanchezza, di strade tortuose, come causa della mutazione del confronto: noi, come utenti, seguiamo solo comportamenti dati.
L’articolo è disponibile solo se sei iscrittə alla newsletter di Domani o se sei abbonato, ma Pintarelli fa riferimeno allo studio di Shoshana Zuboff, insegnante della Harvard Business School, dal titolo Il capitalismo della sorveglianza (LUISS, 2019, traduzione italiana di Paolo Bassotti).
La ricercatrice sostiene che è giusto che ci sia assenza di attrito per accedere a strumenti urgenti, necessari (un’app di servizio pubblico, il sito dell’ospedale, la pagina delle emergenze in caso di pandemia mondiale), ma si domanda: è la stessa cosa se accediamo a Facebook?
L’assenza di attrito («user experience frictionless») non ci fa pensare, non ci fa dubitare, dunque non ci fa più chiedere cosa stiamo facendo. Volevamo solo rendere un sito web di facile consultazione, ma siamo arrivati al punto in cui l’identità personale ammutolisce e non si afferma.
Ultima nota: a novembre 2019, Bruno Saetta per Valigia Blu ha messo in correlazione l’assenza di attrito e la crescita esponenziale di fake news e l’imbarbarimento delle comunicazioni (e dei confronti) online.
Scritto da me
Letto di venerdì
Il libro di venerdì 12 febbraio era L’amore è potere, o almeno gli somiglia molto, una raccolta di racconti di A. Igoni Barrett, edita 66thand2nd e tradotta da Michele Martino.
È una raccolta di nove racconti, uscita nel 2018, ambientati in Africa (in Nigeria e in Kenya), che hanno a che fare con l'amore, con il tornare indietro e ripercorrerne i passi, sperando sempre in un finale diverso.
Vedo gente (online)
Lo scorso 12 febbraio sono andata con Steffi Graf a Bologna, per incontrare Silvia e Francesco del collettivo 42 la risposta alla Confraternita dell’Uva. Abbiamo parlato molto di letteratura, di come ho scritto questo libro e del motivo, e di sport femminile.
Sempre il 12, ma su Radio Sverso, durante il programma 232 Celsius (circa) condotto da Marco Manicardi e Sergio Pilu, ho letto il prologo di Steffi Graf e ho risposto a 3 domande bizzarre. Ci sono anche la musica e David Foster Wallace; dura un’ora.
Per questo numero è tutto.
A presto!
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